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E se Mussolini non fosse mai entrato in guerra?

Fausto Carioti
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La stravagante idea di immaginare cosa sarebbe successo se qualche evento importante o insignificante si fosse risolto diversamente è diventata così alla moda che sono incoraggiato ad intraprendere una speculazione assurda. Cosa sarebbe successo se...». Inizia così uno dei racconti ucronici più famosi, scritto da Winston Churchill, senza il quale la seconda guerra mondiale sarebbe andata molto diversamente (cosa sarebbe successo se la statunitense Jennie Jerome non avesse mai avuto un figlio da lord Randolph Henry Churchill può essere spunto per infinite ucronie, tutte peggiori della realtà che ci è toccata). Sir Winston fingeva di rispondere alla domanda: cosa sarebbe successo se il generale Robert Lee non avesse vinto la battaglia di Gettysburg? Il punto è che Lee, comandante dell’esercito confederato, davvero non vinse quella battaglia nel 1863, tant’è che il discorso passato alla Storia, quattro mesi dopo, lo fece Abraham Lincoln, presidente dell’Unione, davanti al cimitero di Gettysburg. Churchill, insomma, ci ha lasciato un racconto contro-contro fattuale, una prelibatezza per palati raffinati.

 


Per intuibili motivi (primo tra tutti l’immenso fascino dell’argomento), grandissima parte della narrativa ucronica ruota proprio attorno alla seconda guerra mondiale e ai suoi protagonisti. La svastica sul sole (meglio conosciuto come L’uomo nell’alto castello) di Philip K. Dick è il racconto più famoso, anche per la serie televisiva che ne è nata qualche anno fa. In quel caso, il “bivio” porta la data del 15 febbraio 1933: nella nostra realtà, quel giorno, un immigrato anarchico italiano, Giuseppe Zangara, a Miami provò ad uccidere Franklin Delano Roosevelt, eletto presidente poche settimane prima. Ma cosa sarebbe successo se Zangara avesse ammazzato il bersaglio giusto, anziché il sindaco di Chicago che era accanto a lui? La risposta di Dick, appunto, è la vittoria dell’Asse nella seconda guerra mondiale. 

 

 

TRAME NERE E TRAME ROSSE Al gioco adesso partecipa Alessandro De Nicola, avvocato, editorialista di sane idee liberiste e presidente della Adam Smith Society, con quella che per noi italiani è la domanda delle domande: cosa sarebbe successo se Benito Mussolini avesse fatto come Francisco Franco e si fosse rifiutato di far entrare l’Italia in guerra al fianco del Reich? E dunque se non ci fossero stati il 25 luglio, l’8 settembre con annessa “morte della Patria”, il 25 aprile e tutto il resto? Nell’universo parallelo del romanzo di De Nicola, come racconta uno dei protagonisti, «in quella primavera del 1940 Mussolini era in uno stato pietoso. I suoi attacchi d’ulcera lo stavano tenendo a letto in stato semi comatoso. Se quella banda di furbastri codardi di Ciano, Grandi, Bastianini e Bottai non si fossero attivati con inglesi, francesi e tedeschi, ottenendo concessioni dai primi due e convincendo che l’Italia neutrale era meglio anche per la Germania, quel pazzo sarebbe andato in soccorso dell’amico Adolfo». E così non solo furono risparmiate vite, città e infrastrutture, ma l’industria e l’agricoltura italiane poterono espandersi grazie alle forniture alla Germania, che intanto si dissanguava nel conflitto.

 


Il racconto inizia il 26 ottobre del 1952, anno XXX dell’era fascista, a due giorni dal grande anniversario della Marcia su Roma, con il governo in mano al mai fucilato Gian Galeazzo Ciano, Il Ducetto (Rubettino, pp. 254, da 11,39 a 17,10 euro) che dà il titolo al libro, e ha preso il posto del suocero, morto pochi anni prima. Ora qualcuno vuole ammazzare Ciano. Su questa scena si muovono Junio Valerio Borghese e Julius Evola alle prese con trame nere, Palmiro Togliatti, Lavrentij Berija e Andrej Vysinskij alle prese con trame rosse, un Giorgio Almirante giovane e ambizioso, avvocati milanesi, poliziotti veneziani, amanti romane dei gerarchi fascisti e spioni tedeschi. C’è pure un Amintore Fanfani che si è ritagliato un comodo ruolo nella dictablanda di Ciano, come tanti altri italiani: loro si sono adattati al regime e il regime si è adattato a loro. Alla fine, come è di regola in questo genere di narrativa, il bello sono le due trame che si sovrappongono.

 

Quella dei protagonisti che ruotano attorno all’intrigo internazionale: chi vuole portarlo a termine, chi cerca di sventarlo, chi fa il doppio e triplo gioco tra il Pci e l’Ovra. E quella dell’Italia alternativa in cui il romanzo è ambientato. Alternativa, poi, fino a un certo punto: non siamo in una distopia, non è un regime plumbeo quello che copre la nazione scampata alla guerra. Tanto che, trent’anni dopo la Marcia, inizia a farsi forte la spinta della mano invisibile verso la democrazia, il mercato e la collaborazione con gli Stati Uniti e i loro alleati. Ovvero quel «panciafichismo» che il Duce condannava, la tendenza dei gerarchi all’imborghesimento e del fascismo a una democristianizzazione senza Dc. L’Italia del Ducetto si avviava a diventare molto simile a quella in cui viviamo noi: una speranza per gli idealisti, un percorso inevitabile per i realisti, un incubo per chi era rimasto con la testa al 28 ottobre del 1922. Ed è questo conflitto che muove tutto il meccanismo.  

 

 

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