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La guerra dei soldati e quella del popolo: il racconto di Grossman

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Pietrangelo Buttafuoco
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Vasilij Grossman racconta ne Il popolo è immortale, i primi, durissimi mesi dell’invasione tedesca della Russia di Stalin attraverso diverse angolature: con lo sguardo smarrito degli abitanti di villaggi e piccole città, costretti a lasciare le loro case dal procedere inarrestabile dei soldati tedeschi, portando con loro solo qualche fagotto di povere cose impacchettate in fretta; con la codardia dei comandanti che, circondati, si arrendono al nemico strappandosi le mostrine; con il coraggio indomito dell’eroe che avanza, a prezzo della vita, sotto il fuoco nemico, pur di lanciare la bottiglia incendiaria verso le balle di fieno accatastate dai tedeschi a difesa della loro postazione; con la dedizione del soldato che ha salvato l’ultimo sacchettino di trinciato per il suo capitano.


L’opera di Grossman fu dapprima pubblicata a puntate su “Krasnaja zvezda”, (Stella Rossa) il quotidiano dell’esercito sovietico tra il luglio e l’agosto del 1942 e poi in volume nel 1945. Lo scrittore è uno dei corrispondenti di guerra tra i più apprezzati. Lo scopo dei suoi racconti è duplice, infondere coraggio a un esercito che sta subendo terribili perdite ma anche non lesinare biasimo alla gestione sovietica del conflitto. Alcune considerazioni critiche, infatti, venivano eliminate prima che il testo andasse in stampa ma nella presente edizione pubblicata in Italia da Adelphi i passi espunti sono stati reintegrati con un corredo di appendici.


Tra i protagonisti che si stagliano per la loro forte personalità ci sono Babadzan’jan, capitano, comandante del Primo Battaglione e Sergej Aleksandrovic Bogarev, commissario di battaglione che prima della guerra faceva il professore presso la cattedra di Marxismo in un’università moscovita e, infine, Cerednicenko, commissario di divisione. Grande spazio ha la natura costretta ad antropizzarsi attraverso la guerra. «La polvere incombe sull’Ucraina e la Bielorussia», la sollevano migliaia di soldati russi e tedeschi, «il cielo scuro di Agosto si fa cremisi per le vampe malvagie dei villaggi incendiati», «il boato delle bombe si spande nelle foreste di querce, nei boschi di betulle, nel tremolio dei pioppi».


LA NONNA E IL NIPOTE
L’avanzata dei tedeschi è raccontata con pochi tratti. Ogni soldato della Wehrmacht porta con sé un frasario militare russo-tedesco con poche espressioni utili - mani in alto, non muoverti, arrenditi - e i tedeschi sentono di essere invincibili vista la eccezionale rapidità con cui hanno piegato Danimarca, Polonia, Francia, Grecia, Olanda. Credono allo stesso modo - a partire dall’Ucraina dove le armate germaniche trovano da subito un afflato tra le popolazioni- di riuscire anche con l’intera Russia.

La loro fede è incrollabile, sono rigidamente organizzati, obbediscono ciecamente agli ordini, e sono - agli occhi di Bogarev - mediamente ignoranti in merito alla grande cultura tedesca. Questa è appunto l’impressione di un professore che non ha alcuna precedente esperienza militare per il quale “leggere era necessario quanto mangiare e bere”. Cerednceko è invece un militare con trent’anni di servizio che ha combattuto nella prima guerra mondiale e nella guerracivile. È vedovo, ha una vecchia madre e un figlio undicenne, suo ospite nel villaggio di Marcichina Buda che sta per essere occupato dai tedeschi.

Le pagine che raccontano questo episodio sono le più commoventi del libro. La donna, una vera Theotókhos, sentendo approssimare la propria fine- troppo vecchia per scappare, risoluta a non abbandonare la casa dove ha vissuto l’intera sua vita ordina al nipote di fuggire infondendogli una certezza. Quella di riuscire a trovare il padre per riunirsi finalmente a lui. In questo episodio, Grossman descrive un unico personaggio, in tutto il libro, ostile allo stalinismo, perché vittima della collettivizzazione delle terre attuate dopo la rivoluzione bolscevica, il contadino Sergej Kotenko, certo che i tedeschi «ci ridaranno la terra nostra e pare pure che credono nel nostro Dio». Addobba la sua casa per accoglierli e brucia le foto dei suoi due figli arruolati nell’Armata rossa e morti durante la guerra civile.


I tedeschi, invece, razziano tutto quello che trovano nella sua casa, si ubriacano, rovesciano suppellettili, lo guardano sprezzanti. «Quante ferste mancano a Mosca?» È un’altra delle frasi russe mandate a memoria al modo frettoloso e storpiato che ogni tedesco ha imparato, certo di raggiungere e conquistare la capitale russa. Sul taccuino di un soldato tedesco, ucciso in un agguato, con un mozzicone di di matita rossa Babadzan’jan scrive «Non vedrete mai Mosca! Verrà il giorno, in cui saremo noi a chiedere quante verste mancano a Berlino!».
Grossman e Babadzan’Jan si incontreranno a Berlino nel 1945, da vincitori, con ancora nel cuore e negli occhi i terribili mesi del 1941, quando i tedeschi avevano buon gioco a credere che Mosca fosse vicina. Come per Napoleone Bonaparte prima, come già nel lontano passato per Tamerlano, Mosca- la città della Theotókhos, la madre della Tenerezza - anche per Adolf Hitler è città lontana.

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