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Giuseppe Conte e il mito intramontabile e attualissimo di Medusa

Silvia Stucchi
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Fedele alla sua idea più radicata, che cioè il mito è vivo, dentro di noi e nel nostro mondo, e ci aiuta anzi a leggerlo e interpretarlo, Giuseppe Conte con Nessuno può uccidere Medusa (Bompiani, 266 pp., 17 euro) ci offre una potente, barocca, sanguigna, vivissima rilettura in tempi moderni di uno dei miti più intrisi di dolore, mistero e crudeltà del mondo greco. Il romanzo è ambientato in Sicilia, fra l’estate del 2003, la più rovente a memoria d’uomo (titolo ormai contesole da quella appena trascorsa) e la primavera del 2004. Amedea Corallo, detta Med, è la terzogenita di una famiglia borghese: il padre, ammiraglio, era un uomo integerrimo; ma Med ha potuto godere della sua presenza protettiva per poco, perché l’ammiraglio, insieme con la moglie, è morto in un incidente d’auto, dopo aver portato la figlia minore al podere di famiglia, perché Med smaniava per vedere una volpe descrittale come bellissima, astuta e con una folta coda argentata.

Med cresce così nel grande appartamento di famiglia, insieme alle sorelle Amelia, preside, pardon, dirigente scolastica tutta d’un pezzo, e Amanda, pediatra, e all’occhiuta domestica di casa, Santina, che ammorba l’aria con piatti fritti e pesanti. In quella casa, dove, silenziosamente, tutti la incolpano della morte dei genitori, e dove imperano rigore fine a se stesso e conformismo, Med si sente estranea, e sola: è una ragazza vitale, solare, come indica il girasole che, con grande scandalo delle sorelle, si è tatuata su un braccio, e ama tutto ciò che è semplice, selvaggio, a contatto diretto con la natura. Anche la sua bellezza ha qualcosa di selvaggio e di mediterraneo insieme: quel che resta impresso della sua figurina snella e insieme vigorosa sono le lunghe gambe atletiche, e, soprattutto, la massa incredibile di capelli castani, mossi e indomabili, dalle sfumature cangianti.

 

 

STUDI CLASSICI
Al liceo Med ha studiato solo latino e greco, sotto la guida di un gesuita americano trasferitosi in Sicilia, il professor Grant, che si chiama, non per niente, Homer. È stato dunque naturale per Med, dopo il diploma, iscriversi a Lettere Classiche; ma, data la sua personalità travolgente e vitale, le pastoie accademiche, i professori come burocrati senza passione, o peggio ancora, come viscidi potenziali profittatori, le infinite note a pié pagina sull’edizione dell’Odissea consigliata agli studenti rappresentano tutte delusioni, che potrebbero spegnere ogni entusiasmo. Per fortuna, però, c’è Esmeralda, detta Esm, figlia di un principe antica nobiltà, rovinato e indebitato, come spesso accade a chi vive nel passato e fa del blasone l’unico interesse della sua esistenza. Per salvare il palazzo di famiglia un sistema ci sarebbe: l’uomo cui il principe Laerte, il padre di Esm, deve una cifra astronomica è Vittorio Ventura, un milionario che ha interessi ovunque, fondatore del gruppo VIVE, che comprende attività ramificate in ogni campo dell’economia, dalla pesca all’edilizia, alla vendita al dettaglio con una catena di supermercati, l’ultimo dei quali sta riducendo in rovina il negozietto di Abdelnur, di cui Med è affezionata cliente.

LA PIETRIFICAZIONE
A Vittorio Ventura, un self made man come Rockfeller, o, potremmo dire, come il verghiano Mazzarò, manca solo una cosa: il prestigio che viene dal matrimonio con una nobildonna, ovvero, con Esm. Ma il Fato ci mette lo zampino e Vittorio viene folgorato da Med e dalla sua bellezza selvatica e unica. L’esito sarà tragico. E Med proverà sulla sua pelle e nella sua carne la crudeltà, la violenza, l’abbandono, la rabbia di chi non riesce nemmeno a disperarsi e vive solo per la vendetta. Io non piangea, sì dentro impetrai (If. XXXIII, 49): così dice il Conte Ugolino raccontando a Dante la sua terribile vicenda. Così si sente anche Med: dura e fredda come pietra, incapace di piangere e provare pietà, non per se stessa, men che meno per il resto dell’umanità. La pietrificazione, che il mito attribuisce attivamente a Medusa, diventa, nel romanzo di Conte, una reazione di Med stessa all’onta e allo strazio subiti; e, allo stesso tempo, dura e affilata come pietra è la vendetta della ragazza. Le immagini e la metafora della pietrificazione, o, come si direbbe tecnicamente, della litomorfosi, vengono quindi declinate diversamente nel romanzo: infatti, Conte dissemina di pietre il racconto: sono i sassi su cui Med incide il suo nome, recapitati come minacciosi avvertimenti al suo carnefice; è la sassaiola dei ragazzi del gruppo ecologista “Piccola Piuma”, cui Med si unisce (all’inizio per motivi molto poco ideali, va detto), contro la polizia intenzionata a farli sloggiare dal giardino che dovrà essere raso al suolo per costruire l’ennesimo complesso residenziale di Ventura; oppure, ancora, sono i Faraglioni di Aci Trezza, che fanno riflettere Med sulla crudeltà del mito (quelle rocce sarebbero le rocce scagliate da Polifemo accecato contro Ulisse in fuga), se riletto da un’altra prospettiva.

La Sicilia di Conte è davvero la terra dove il mito cammina e vive in mezzo a noi: sulla facciata del palazzo di Esm troneggia un maestoso Poseidone con cui Vittorio, nella sua hybris, si identifica; Med incontrerà anche un meraviglioso Pegaso, e persino un Anchise in carne ed ossa; lei stessa, a tratti, più che Medusa, sembra quasi una Erinni. Eppure, anche dopo l’inverno più freddo e tetro, la primavera ritorna e riporta la vita: e così anche per Med, pur se definitivamente mutata, nel corpo e nello spirito, da quanto subito e da quanto fatto, il romanzo si conclude con una nota di speranza.

 

 

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