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Caso Levi, così il potere della sinistra si avvia al tramonto

di Fausto Carioti sabato 27 maggio 2023

4' di lettura

Ci sono molte cose interessanti in questa storia di Ricardo Franco Levi, che ieri, dopo che Libero ha raccontato della consulenza data alla società del figlio, si è dimesso dall’incarico di commissario straordinario del governo perla fiera internazionale del libro che si terrà a Francoforte. La prima cosa interessante è il profilo dell’uomo, che in tre mesi, a cavallo tra il 1991 e il ’92, fondò e quasi affondò l’Indipendente (la testata fu salvata da Vittorio Feltri, che ne ribaltò la linea). Quindi fu portavoce di Romano Prodi a palazzo Chigi e a Bruxelles, ha trascorso sette anni a Montecitorio come deputato del Pd ed è diventato presidente dell’associazione italiana degli editori, incarico che ricopre tuttora. E lo scorso anno è stato nominato commissario per la Frankfurter Buchmesse su designazione del piddino Dario Franceschini, ministro della Cultura nel governo Draghi.

Levi, insomma, è uno dei simboli di una stagione politica, un pezzo importante del blocco di potere che ha governato l’Italia negli ultimi decenni. Come tale, infatti, è stato trattato in quest’ultima vicenda che lo vede protagonista, e ciò che è successo ieri e quello che vedremo oggi sui giornali è una bella lezione su come funzionano le cose in Italia.

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LA DIFFERENZA - Su una notizia che ha tutti gli elementi dell’ennesimo peccato di hubris sconfinante nel familismo, anche per ciò che il personaggio rappresenta, è subito partita l’opera di derubricazione. Non se ne parla, non si sono viste né sentite reazioni, e chi è stato costretto ad occuparsene per dovere di cronaca, come i siti dei maggiori quotidiani, l’ha presentata come una vicenda slegata dall’ambiente politico in cui è accaduta. Un saluto romano fatto da un ignoto spettatore a un comizio è la verità disvelata, lo specchio di tutto il marcio che alligna a destra, ma l’uomo di fiducia di Prodi che si dimette quando certe sue scelte diventano di dominio pubblico va trattato come un episodio a sé, che nulla ha a che vedere col modo in cui dalle sue parti si intende e si usa il potere.

Le testate online che se ne sono interessate hanno preferito enfatizzare le parole del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, intenzionato a scegliere un nuovo commissario «in discontinuità» col precedente: il gancio al quale appendere le accuse di volersi “prendere il Paese”, secondo il teorema per cui il centrodestra, quando vince le elezioni, non ha il diritto di fare ciò che il Pd, con Franceschini e gli altri, è riuscito a fare pure quando le elezioni le ha perse. È sin troppo facile immaginare il putiferio mediatico e politico che sarebbe venuto giù se Vittorio Sgarbi, con metodi analoghi a quelli di Levi, avesse usato soldi pubblici per assegnare a uno dei suoi figli una consulenza in qualche museo.

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Non è nemmeno una questione di egemonia culturale: non più. Se la sinistra avesse ancora una cosa del genere se ne avvertirebbe il peso sulle masse, la si coglierebbe sui manifesti affissi nelle periferie, ci sarebbe ancora chi gira orgoglioso con «in tasca L’Unità», come nelle canzoni di Guccini, o almeno con una copia di Repubblica o della Stampa sottobraccio. Ma le masse non ci sono più e nelle periferie vince la destra.

LA FILIERA RAI - La dove c’era l’egemonia oggi c’è il circoletto degli amici: compagni, colleghi, talvolta consanguinei. Tramontata l’ideologia, li tiene insieme la filiera produttiva: ci si scambiano gli incarichi di consulenza nelle case editrici e gli inviti in televisione, ci si recensiscono i libri a vicenda e quando uno che fa parte di questa famiglia allargata sbaglia qualcosa, come è successo a Levi, ci si volta dall’altra parte e si conserva ogni goccia d’indignazione per gli altri. La polemica contro le ultime nomine in Rai è fatta di questo materiale: per ogni poltrona che cambia occupante ci sono presentazioni di libri nelle trasmissioni amiche e contratti da autore che saltano, e rischiano di non tornare più. La filiera sta per essere delocalizzata. Così la vicenda di Levi e delle sue dimissioni, e del modo in cui è trattata, diventa la metafora di un intero sistema di relazioni. Un gruppo di persone che contavano tanto, ma contano sempre di meno, non riesce a distinguere dove finisce l’incarico avuto per nomina politica e dove inizia l’imbarazzante privilegio. Vede che sul proprio mondo avanza il tramonto, sotto le spoglie di una donna premier che pare uscita dai loro incubi, tanto è diversa da loro e da ciò cui erano abituati. E questa consorteria reagisce come può: facendo testuggine e sperando che la nottata passi presto. Ma a cercare rifugio nel proprio microcosmo si perde contatto con la realtà ed è facile precipitare nell’umorismo involontario. Sta già succedendo, l’editoriale apparso ieri su Repubblica è lì a testimoniarlo. Inizia con queste parole: «Diciamoci la verità. È da un quarto di secolo che il centrodestra controlla il servizio pubblico». Non è malafede, è percezione alterata. Li stiamo perdendo.

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