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Israele e Palestina, propaganda e realtà: ecco le dieci bugie più grandi

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Slogan. Spesso ripetuti a pappagallo, in una piazza che s’infiamma, si fa trascinare, che neanche sa ciò che urla. I cortei di sostegno alla “resistenza” palestinese stanno vomitato di tutto. Odio, per cominciare. Tanto odio. E poi inesattezze storiche, formulette da propaganda sovietica, falsità. Non è il caso di commentare gli striscioni come «rivedrete Hitler all’inferno» o le immagini di Anna Frank con la kefiah al collo: quelli si commentano da soli. È il caso di analizzare uno dopo l’altro i motti berciati a Milano, a Roma, a Bologna, a Torino, per cercare di ristabilire un minimo di verità oltre alla marea di menzogne che è stata detta. Ecco i dieci punti sui cui i filo-palestinesi e i pro-Hamas di casa nostra non hanno ragione.

1 - «Quello a Gaza è un genocidio»
Nel 2000 la popolazione della Striscia di Gaza contava 1,1 milione di abitanti. Nel 2004 il premier israeliano Ariel Sharon annunciò il Piano di disimpegno unilaterale ebraico (in soldoni, l’intenzione di ritirarsi dalla Striscia), piano che venne attuato l’anno successivo, nel 2005. Nel 2010 la popolazione di Gaza è passata al milione e 600mila abitanti, nel 2020 ha raggiunto i due milioni e 300mila. Significa che, da quando gli israeliani hanno lasciato Gaza, il numero dei palestinesi che vi risiedono è più che raddoppiato. Genocidio?

2 - «Basta con l’apartheid israeliano»
La Lista araba unita, Ra’am, è un partito politico israeliano fondato nel 1996 e che oggi detiene cinque seggi alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme. Non è l’unico: in Israele ci sono Mada (il Partito democratico arabo) e Ta’al (il Movimento arabo per il rinnovamento). Nel giugno del 2021, Ra’am, perla prima volta nella storia di Israele, è entrata a far parte della coalizione del governo Bennett-Lapid. Gli arabo-israeliani che vivono in Israele votano, lavorano, vanno al mercato, a scuola, pagano le tasse, vengono curati se prendono un raffreddore esattamente come gli ebrei che vivono in Israele.

Nel 2022 l’Israel democracy institute ha condotto un sondaggio tra la popolazione araba residente in Israele il quale ha mostrato che l’81% degli arabi-israeliani preferisce vivere in Israele piuttosto che in un altro Paese occidentale. L’apartheid è altra cosa (e comunque in nessuno Stato arabo esiste un partito ebraico).

3 - «Queer for Palestine»
Ovviamente il movimento Lgbtq è libero di dire quel che vuole e difendere chi crede. In Occidente, però. A Gaza, ma anche a Hebron o Ramallah o Jenin, non può fare altrettanto per una ragione semplice: perché a Gaza, ma anche a Hebron o Ramallah o Jenin, non esiste alcun movimento Lgbtq, lì gli omosessuali sono perseguitati. Impiccati, buttati dai palazzi, decapitati.

Vengono incriminati con pretesti tra i più svariati (non ultima l’accusa di essere “collaborazionisti del sionismo”) e uccisi. Numeri ufficiali non ci sono, perché per le grandi organizzazioni internazionali evidentemente questo non è un problema rilevante, ma solo nel 2020 almeno 150 gay palestinesi hanno trovato rifugio in Israele dove esistono ong come Agudà o Habait Hashonè che danno loro riparo. Secondo il Pew research center di Washington solamente il 4% dei palestinesi sarebbe disposto ad accettare, nel consesso civile, una qualsiasi forma di omosessualità. A giugno, alla parata del gay pride di Tel Aviv, hanno invece sfilato 250mila persone.

 

 

4 - «Israele è uno Stato terrorista»
Nel giugno del 1948 (in piena guerra iniziata da Egitto, Siria, Libano e Giordania), in un contesto nel quale l’Haganah, il babbo delle Idf, non aveva munizioni manco per difendersi, e infatti ai giovani che iniziavano il sevizio militare veniva consegnata una pallottola, una di numero, e la tenevano nel taschino della giacca per loro stessi qualora fossero stati catturati, il primo ministro ebraico David Ben Gurion fece bombardare e affondare, al largo di Jaffa, la nave Altalena che trasportava un carico di armi destinato all’Irgun, la più famosa entità ebraica paramilitare e terroristica. Le casse dell’Altalena sarebbero state di vitale importanza per l’esercito regolare israeliano, ma Ben Gurion non volle che finissero nelle mani dei terroristi che pure combattevano, mettiamola così, la sua stessa battaglia di sopravvivenza.

Israele non è uno Stato terrorista, è uno Stato che coi suoi terroristi (prima di quelli degli altri) non scende a compromessi. Sul lungomare di Tel Aviv, ancora oggi, c’è una targa che ricorda l’Altalena: a dimostrazione che la lezione di Ben Gurion è ben radicata nella coscienza israeliana.

5 - «L’Anp è più moderata»
L’Autorità nazionale palestinese (Anp) è l’organo di autogoverno palestinese nelle aree A e B di West Bank ed è stata costituita nel 1994 a seguito degli accordi di Oslo. In realtà è retta da Al Fatah, un’organizzazione paramilitare palestinese il cui leader è (non a caso) Abu Mazen. L’articolo 19 dello statuto di Al Fatah (scritto nel 1959 sotto l’egida di Yaser Arafat e mai cancellato o abrogato o modificato) recita: «La lotta armata è una strategia e non una tattica e la rivoluzione armata del popolo arabo-palestinese è il fattore decisivo nella lotta per la liberazione e lo sradicamento della presenza sionista, questo scontro non cesserà sino a quando lo Stato sionista non sarà demolito e la Palestina completamente liberata». A riprova della “moderazione” dimostrata dall’Anp, Abu Mazen ha stanziato, in questi giorni, un fondo di 2,7 milioni di dollari per le famiglie dei terroristi di Hamas morti nel pogrom del 7 ottobre. In base alla legge dell’Anp, infatti, ogni famiglia di un “martire” del jihad anti-ebraico ha diritto a un bonus di 1.511 dollari più un vitalizio mensile di altri 353 (con un bizzarro meccanismo di sussidiarietà retroattiva perché in passato diversi combattenti di Gaza non avevano ricevuto le somme pattuite e l’Anp sta correndo ai ripari pagando ex-post quanto non versato in precedenza).

6 - «Dal fiume al mare»
Il fiume è il Giordano, il mare il Mediterraneo. A parte l’ovvio assunto che considerare tutto il territorio ad esclusivo uso palestinese significherebbe spazzare dalla cartina geografica Israele, il punto non è che non esiste uno Stato palestinese: il punto è che i palestinesi non hanno mai voluto che esistesse. Dalla fine del mandato britannico in Medioriente lo hanno rifiutato ufficialmente almeno quattro volte: nel 1947 quando non hanno accettato la risoluzione dei “due Stati” voluta dall’Onu; a seguito della Guerra dei sei giorni (1967) quando Israele si era detta pronta a restituire i territori occupati militarmente a condizione che venisse riconosciuto lo Stato ebraico nato con i confini di vent’anni prima; nel 2000, quando a Camp David il premier israeliano Ehud Barak era pronto a concedere ad Arafat il 97% dei territori e Gerusalemme est; e nel 2008 quando ci ha riprovato il successore di Barak, Ehud Olmert, ampliando, per quanto fosse possibile, l’offerta sul tavolo di Abu Mazen. Alla luce di tutti questi rifiuti, “dalla terra al mare” è uno slogan vuoto: ciò che ha sempre mosso il jihadismo arabo-palestinese non è un nazionalismo di tipo territoriale, ma la volontà di distruggere lo Stato ebraico.

7 - «Serve una risposta proporzionata»
Cosa significa, di preciso, “risposta proporzionata”? Il diritto internazionale non la codifica: non lo fanno né la Convenzione dell’Aia del 1907 né la Convenzione di Ginevra del 1949 e non lo fa nessun manuale o trattato o atto anche solo bilaterale sottoscritto da chicchessia diciamo (ma solo per tracciare un arco temporale) dal Secondo dopoguerra a oggi. Sarebbe impossibile definirla ed equivarrebbe a legittimare una sorta di legge del taglione la quale non avrebbe fine. Israele non ha mai violato un accordo a cui ha partecipato. Però non è solo questo. È che il suo esercito è l’unico al mondo ad affermare il principio della Tohar Haneshek, ossia la purezza delle armi che esplicita come le unità delle Idf e i suoi uomini siano prima di tutto rispettosi della legge e abbiano il diritto (anzi, il dovere) di contrastare o rifiutare un ordine quando lo ritengono non conforme al diritto internazionale o all’etica.

 

 

Le Convenzione sopra citate, tra l’altro, prevedono un divieto assoluto di utilizzo di abitazioni civili, luoghi di culto o ospedali per lo stoccaggio delle armi o il posizionamento delle basi operative. Ne consegue che, tuttalpiù, sarebbe imputabile ad Hamasla responsabilità della violazione del diritto internazionale per l’esposizione dei civili palestinesi ai pericoli del conflitto militare.

8 - «Non c’è pace sotto l’occupazione»
In un raro momento di lucidità delle Nazioni unite, il 22 novembre del 1967 è stata approvata dal consiglio di sicurezza dell’Onu la risoluzione 242 che impegnava Israele a ritirarsi dai territori occupati con la Guerra dei sei giorni a condizione che gli Stati arabi confinanti riconoscessero la sua esistenza. Israele ha sempre tenuto fede all’accordo: nel 1978 ha restituito all’Egitto di Sadat il Sinai, nel 2005 si è ritirata da Gaza e la Cisgiordania è diventata una sorta di limbo (regolamentato solo nel 1993 dagli accordi di Oslo, sicuramente imperfetti ma non per volontà israeliana) dopo che re Hussein aveva rinunciato alla sua sovranità.

L’«occupazione di 56 anni», citata vergognosamente anche dal segretario generale dell’Onu António Guterres, non nasce come un sopruso di Israele in chiave anti-islamica, ma come un’esigenza di difesa. Gli unici arabi che hanno provato a porre fine a questa situazione cercando di vivere in pace con gli ebrei (re Abdullah I di Giordania nel 1951 e Anwar al-Sadat nel 1981) sono stati assassinati. Da altri arabi.

9 - «Gaza è una prigione a cielo aperto»
Prima della guerra, oltre l’80% dei palestinesi di Gaza viveva grazie agli aiuti umanitari internazionali e il tasso di disoccupazione era del 46,6%. In tutta Israele lavoravano 140mila palestinesi, 11mila provenienti da Gaza che potevano passare la frontiera di Erez esibendo un permesso di lavoro (alcuni di loro sono stati assassinati nella mattanza di Hamas di tre settimane fa). Solo nel 2007 Israele ha concesso 7.176 permessi ai medici palestinesi di Gaza per trasportare altrettanti pazienti nel vicino ospedale ebraico Barzilai, ad Ashkelon, dove ci sono strumentazioni e cure all’avanguardia. Non è esattamente uno scenario da penitenziario di massa. La Striscia di Gaza, tra l’altro, non confina solamente con Israele, ma anche con l’Egitto. A sud, tramite il valico di Rafah che dal 7 ottobre non ammette il passaggio (se non di pochi camion con derrate umanitarie): tuttavia nessuno ha mai accusato il Cairo di avere in mano una delle due chiavi della “prigione” palestinese.

10 - «Piangono tutti gli ebrei e nessuno si cura dei profughi palestinesi»
I rifugiati palestinesi sono gli unici ad avere una propria agenzia all’Onu, la Unrwa. Fondata nel 1950, la Unrwa, si occupa di 5,6 milioni di rifugiati, ha 28mila dipendenti quasi tutti palestinesi e nel 2021 metteva a bilancio 1.206.677.000 dollari per le sue attività. Nello stesso periodo, l’Unhcr, che è l’Alto commissariato delle Nazioni unite per (tutti gli altri) profughi del mondo registrava queste cifre: 97,3 milioni di persone seguite, 13mila dipendenti e un bilancio di 8.616.000.000 dollari. A proposito di proporzioni: l’Unrwa gestisce un numero di profughi di più di diciotto volte inferiore rispetto a quello del totale mondiale, ma lo fa con risorse che sono a malapena sette volte più basse. Vivere in un campo profughi è chiaramente drammatico per chiunque, palestinese o no: ma agli occhi della comunità internazionale, e degli aiuti che è disposta a elargire, i profughi palestinesi non sono affatto stati dimenticati. Al contrario, hanno sempre ottenuto un’attenzione privilegiata.

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