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La verità sul boom di Beppe Grillo? E' dovuto all'astensionismo...

Filippo Facci

Il botto del M5S è dovuto in gran parte all'emorragia di voti che ha dissanguato Pd e Pdl. Ma la fuga non si arresta: i partiti non rappresentano più il Paese effettivo

Andrea Tempestini
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di Filippo Facci Il senno di poi scarseggia ancora di senno, ci pare: sarà dunque concessa qualche considerazione dopo aver letto milioni di analisi.  Cominciamo col dire questo: internet e i social network non hanno fatto nessuna differenza; sono rimasti appannaggio di chi, in precedenza, aveva già votato Grillo in percentuali ben più trascurabili. In realtà abbiamo assistito alla campagna elettorale più televisiva della storia italiana, quella in cui tutti i candidati hanno presenziato in tutti i programmi possibili dalla sera alla mattina, benché  mai confrontandosi. Non è che l'Italia, agli ultimi posti occidentali nell'uso di internet, è diventata il bengodi del web in occasione delle politiche 2013. La massa dei voti che ha fatto decollare Grillo proveniva e proviene da altri partiti, da gente ordinaria che ha semplicemente guardato la tv negli ultimi sette anni (laddove i talkshow hanno trasmesso ore e ore di monologhi, altro che «Grillo non è andato in tv») ed è gente che a tutt'oggi non sa un perfetto accidente del blog del comico e del suo «programma». Veniamo a Bersani e a Berlusconi. Il primo, inteso come vecchio e come apparato, probabilmente ha fatto perdere voti e basta. Lo dimostrano i sondaggi secondo i quali Matteo Renzi, se il candidato premier fosse stato lui, avrebbe fatto guadagnare consensi anche al netto di quelli che i vetero-pieddini non gli avrebbero mai dato, e che infatti alle primarie votarono Bersani: ma sono una porzione molto ristretta dell'elettorato. Tutto questo peraltro era previsto e prevedibile esattamente com'è accaduto in Lombardia, dove il Pd ha perso fuori dalle zone metropolitane e poi in provincia, nella bassa, nelle valli e nelle fasce produttive. Per capire che stava passando con Grillo anche un altro genere di vetero-sinistra (antimilitarista, gruppettara, ecologista e leoncavallina) per il resto bastava sbirciare in Piazza San Giovanni.  Detto questo, resta sconcertante il riflesso piddino di «dialogare» con Grillo e, di riflesso, cercare l'approccio coi «compagni che sbagliano». Le varie Spd di Francia e Germania, di originaria matrice più socialista che comunista, hanno già detto a chiare lettere che l'idea tutta italiana di un'alleanza Pd-Grillo è da pazzi completi. Solo da noi, in Italia, l'ipotesi è ritenuta molto più accettabile del semplice cercare un approccio col centrodestra. Ma va così. Parlare con Grillo non serve a niente, non ci sarebbe da perderci un minuto: benché la sinistra-chic, solo all'idea, sia eccitata come lo erano le contesse coi demoproletari negli anni Settanta. Non serve a niente - qualsiasi compromesso tornerebbe a svantaggio di Grillo, che lo sa - ma per capire questa cosa ovvia impiegheremo una vita. Ora Bersani sta approcciando qualche neo senatore grillino come il suo partito aveva già fatto nelle varie amministrazioni regionali: lo «scouting», alias «mercato delle vacche», sarebbe questo, e ha tutta l'aria di un'altra perdita di tempo. Anche le scarne proposte ritenute ufficialmente condivisibili dai 5 Stelle (legge elettorale, conflitto d'interessi, costi della politica eccetera) se affrontate da sole farebbero presto accorgere che è tutta roba che non si mangia, e che il Paese ha urgenza di ben altro.  Potrebbe rivelarsi un boomerang che non risparmierebbe nemmeno Grillo. Berlusconi ha fatto riguadagnare voti ma ne ha anche fatti perdere. Senza di lui non ci sarebbe stata nessuna rimonta, anzi: ma, con lui, il Pdl seguiterà a corrispondergli in toto sinché l'intero centrodestra, prima o poi, crollerà in verticale per mancanza di alternative, e dovrà rifondarsi sul nulla. Invenzioni come Fratelli d'Italia hanno scontato l'alleanza con Berlusconi e un'eccessiva farcitura di ex An. Di passaggio: se Oscar Giannino non si fosse candidato, non è detto che avrebbe vinto Berlusconi, perché molti elettori di «Fare» hanno detto che si sarebbero astenuti e che in ogni caso non avrebbero votato il Pdl di Berlusconi.  Nell'insieme, Pdl e Pd hanno perso una quantità impressionante di voti, com'è noto. Non hanno vinto tutti: hanno tutti perso. La rimonta del Pdl è andata incrociandosi con la discesa del Pd, fino alla sostanziale parità: ma entrambi hanno perso rappresentatività. Grillo si è nutrito delle loro spoglie poiché l'astensionismo ha ripreso a galoppare e neppure lui è riuscito a convertirlo, benché ci provi dal 2008. Le percentuali rivendicate dai partiti - tutti - sono ormai distantissime dalle percentuali di italiani effettivi, a nome dei quali nessuno può più azzardarsi a parlare. In ogni caso, calcolando il numero imprecisato di quanti hanno votato Grillo anziché astenersi, è praticamente impossibile comprendere se, nel caso in cui Grillo non si fosse candidato, avrebbe vinto il Pdl o il Pd. Ricordiamoci che l'analisi dei flussi, soprattutto quella del citatissimo Istituto Cattaneo, ha un'affidabilità relativa. La stessa analisi dei flussi, del resto, non spiega che cosa sarebbe successo realmente se Monti non si fosse candidato.  Chi scrive pensa che il Pd, nel caso, avrebbe vinto: perché è vero che la lista di Monti ha preso molti voti dal Pdl, ma sono voti - convinzione personale - che non sarebbero tornati più da Berlusconi perché espressi da un sacco di gente che non è più disposta a votarlo. Ergo, se Monti non si fosse candidato, ora probabilmente sarebbe premier. Non sarà così e siamo tutti contenti, ma ora si rischia di passare da un disprezzo borghese per la politica a una patetica e perfetta ignoranza della medesima, insomma a Grillo.

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