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Presidenze di Camera e Senato, le poltrone che ammazzano la carriera politica

Eliana Giusto
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«Non toccate quella poltrona. Statene lontani, se avete a cuore la vostra carriera, la famiglia, gli affetti più cari». Potrebbe iniziare così, con questo lancinante consiglio dall'oltretomba dei predecessori, con questo sitibondo messaggio in bottiglia gettato in acqua da ombre mute relegate nell'isola dei rimpianti, il momento culminante del grande gioco per l'assegnazione delle presidenze di Camera e Senato nella quasi neonata diciottesima legislatura. Intanto perché è una legislatura che s' indovina già consunta e invecchiata sin dai primi suoi vagiti. E poi perché, da almeno qualche decennio a questa parte, sui troni di Montecitorio e Palazzo Madama aleggia una sorta di maledizione, un decreto malevolo del fato che consegna i presidenti eletti a un destino infausto, anodino nel migliore dei casi, beffardamente opposto alle aspettative delle sue vittime. Con qualche rara eccezione, come si conviene a ogni legge superiore. Leggi anche: Luigi Di Maio, lo sfregio a Silvio Berlusconi: no a contatti telefonici, la notizia riferita da Gianni Letta Entriamo dunque nei corridoi dei vetusti Palazzi e proviamo a guardare à rebours questa piccola galleria dell' orrore politico. Cominciamo da Montecitorio, dove risuona l' eco più stridente nell'abisso che separa le premesse della vigilia dall'esito ultimo della legislatura. Cominciamo da Laura Boldrini, forse uno dei presidenti meno amati nella storia repubblicana, giunta in vetta nel 2013 grazie all'illusione bersaniana di poter così guadagnarsi l'alleanza di Beppe Grillo per formare un governo Pd-Cinque stelle. Ingaggiata dalle agenzie internazionali umanitarie, ci ha inflitto un lustro di lacrimevoli e inconcludenti battaglie tardo-femministe e filo-immigratorie, una lotta di genere dal chiaro profilo italianofobo che ha soppiantato il conflitto di classe regalando i più deboli fra gli italiani nelle capaci braccia del populismo (del che, in fondo, potremmo ringraziarla). La sua esperienza si è conclusa con una rielezione in Parlamento che è costata l' esecuzione sommaria dell' ultimo lacerto di sinistra radicale (Liberi e Uguali). L'EX LEADER DI AN - Prima di lei, Gianfranco Fini (2008), e l' articolo potrebbe finire qui, per manifesta autoevidenza della tesi iniziale. L'ex capo della destra postfascista era perfetto per il ruolo: antipatico, ambiziosissimo e assai malintenzionato. Voleva usare la presidenza della Camera per fare la pelle a Silvio Berlusconi, è finito impagliato sulla parete dei superbi, sconfitto e inseguito dai giudici per il noto scandaluccio della casa di Montecarlo transitata in modo opaco dalle disponibilità di An a quelle della famiglia acquisita di Fini, i Tulliani da Val Cannuta, tutti primi al traguardo del suo gelido cuore. Di lui non resta che un ricordo troppo abbronzato. OSPIZI ELETTORALI - E prima di lui? Fausto Bertinotti (2006), gentiluomo comunista colto e salottiero che si era imposto a Romano Prodi per guidare la riscossa del proletariato dall' alto di Montecitorio. Un insediamento fatale alla sua vellutata eleganza, che si è presto ingessata in un incomprensibile fenomeno di automummificazione politica. E così è morta Rifondazione comunista, tra una visita bertinottiana al Monte Athos, il cucuzzolo dei cristiani ortodossi ellenici, e lo sgambetto letale al prof. bolognese. Appena meglio, ma non poi troppo, è andata ai suoi immediati predecessori. Pier Ferdinando Casini (2001) è salito al trono nel pieno del principato berlusconiano, e da lì, forte della sua lungimiranza dorotea, ha proclamato la fine della monarchia di Arcore. Risultato: Berlusconi ha regnato per altri 15 anni, Casini ha concluso (?) la sua carriera nell'ospizio elettorale del Pd emiliano, senza più un centro né un partito. Quanto all' ex comunista Luciano Violante (1996) e all'ex vandeana Irene Pivetti (1994), hanno avuto l'accortezza di ripararsi in una vita acquartierata (lui) o in un netto cambio di mestiere (lei). Qui ci fermeremmo, segnalando soltanto che, se con Pivetti iniziava la Seconda Repubblica, con Oscar Luigi Scalfaro (1992) e Giorgio Napolitano (1992) finiva la Prima: allora la presidenza della Camera, se ben maneggiata, poteva essere il viatico per il Quirinale. IL SOGNO DEL COLLE - E qui entriamo in Senato, perché Palazzo Madama è ancor più prossimo alla presidenza della Repubblica per importanza (ne sapeva qualcosa Francesco Cossiga). Qui il ruolo apicale vale come una condanna alla marmorizzazione preventiva, la pietrificazione è quasi un dovere istituzionale. L' uscente Pietro Grasso (2013) aveva in più quel tratto d' intangibilità che gli derivava dalla carriera in magistratura. Sorrideva già, insipido, da perfetto capo dello Stato. Per lui vale il discorso fatto intorno alla Boldrini, al netto di un' apparente bonomia da masculo siciliano impermeabile alle retoriche boldriniane, ma costretto a fingersi allineato a ogni verbo conformista. Il forzista della prima ora Renato Schifani (2008) aveva mostrato doti politiche decisamente superiori, qualità poi frustrate dalla mancata elezione al Quirinale (sì, ci sperava davvero), e dissipate dalla successiva sbandata per il partito governista di Angelino Alfano: un dolore che il Cavaliere ha saputo infine perdonargli, riaccogliendolo. E che dire di Franco Marini (2006), se non che appunto la presidenza del Senato si disvela agl' illusi come il cimitero delle velleità quirinalizie? Perfino un diccì scaltro come lui ci sarebbe cascato con tutta la pipa, accanto al consanguineo Romano Prodi, nel gorgo della matta e disperata rielezione di Napolitano al Colle (2013). DISSOLTI - Ma proseguiamo a risalir li rami con Marcello Pera (2001), professore di chiarissima scienza entrato nell' orbita berlusconiana con Lucio Colletti (chissà come se la ride, adesso, laggiù all'inferno) e altri campioni dell' accademia. Appena possibile, è stato premiato con il ruolo di seconda carica dello Stato. Non ha dato cattiva prova di sé, è perfino riuscito a rendere filosoficamente coerente il suo passaggio dai lidi del laicismo scientifico all' acquasantiera di papa Ratzinger. Poi, esaurita la legislatura, si è dissolto come il caso e la necessità, le sostanze e gli accidenti sui quali aveva speso i suoi anni migliori di studioso. Gran finale con Nicola Mancino (1996) e Carlo Scognamiglio Pasini (1994). Il primo è scomparso presto dai radar, per ragioni anagrafiche e per sopraggiunto esaurimento della riserva diccì primorepubblicana (fa eccezione Paolo Cirino Pomicino, invincibile): oggi langue nascosto, incresciosamente mascariato dagli schizzi di fango sulla fantomatica trattativa Stato-mafia. L'altro, liberale, bocconiano e molto pettinato, eletto con appena un voto in più del predecessore Giovanni Spadolini che ne soffrì fino al crepacuore, dopo la presidenza di Palazzo Madama ha attraversato altri governi, altri partiti, con un ritorno alle origini del Pli da cossighian-dalemiano pentito. Lo si ricorderà per aver promosso l' abolizione della leva militare obbligatoria. Addio alle armi: il giusto motto per le presidenze delle Camere, una ragione in più per tenersene alla larga. di Alessandro Giuli

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