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Scissione M5s? Verso il rimpasto, ecco quali teste (grilline) Mario Draghi potrebbe far saltare

Fausto Carioti
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Ad attendere Luigi Di Maio e gli altri ministri del M5S al termine del tunnel buio che stanno attraversando s' intravede un incubo ancora più brutto: il rimpasto di governo. Lo sanno loro, lo sa Mario Draghi e lo sanno i capi dei partiti della strana maggioranza. È anche a questo, e non solo alla sfida per il Quirinale, che si riferisce Enrico Letta, quando davanti alla faida dei suoi alleati ammette di avere «il timore di dare un vantaggio alla destra». Bisogna partire dai numeri, perché ogni governo parlamentare è costruito seguendo le indicazioni del manuale Cencelli e quello di Mario Draghi non fa eccezione. Il movimento fondato da Beppe Grillo conta oggi 75 senatori e 161 deputati. Complessivamente si tratta del 25% dei parlamentari. In ambedue i rami, i gruppi del M5S sono tuttora i più numerosi, nonostante le quasi cento defezioni subite dall'inizio della legislatura. Sono queste le ragioni per cui il M5S ha fatto la parte del leone anche nell'esecutivo di Draghi. Nessun altra sigla conta quattro ministeri (incluso quello degli Esteri, l'unico di prima fascia non assegnato a un tecnico) e undici sottosegretari. I fortunati grillini che fanno parte del governo, però, debbono la poltrona alla sottostante massa di peones che appartiene al loro stesso gruppo e vota la fiducia a Draghi.

 

 

Nel momento in cui queste condizioni cambiassero, s' imporrebbe una "ridefinizione" degli equilibri. E la scissione che sta per fare Giuseppe Conte, confermata da lui stesso ieri («questo progetto non lo voglio tenere nel cassetto») e ritenuta inevitabile pure da Grillo («se qualcuno vuole fare una scelta diversa, la farà»), avrebbe conseguenze enormi. Innanzitutto toglierebbe al M5S la palma di prima forza del parlamento, che andrebbe alla Lega. A fare la differenza basterebbe infatti la fuga dal M5S di 12 senatori e 30 deputati, e quelli pronti (almeno a parole) ad andarsene con Conte sono parecchi di più, almeno un centinaio di parlamentari, molti dei quali attirati dalla possibilità di candidarsi una terza volta pur avendo già fatto due mandati.

LE POLTRONE
Anche spaccando il movimento a metà, e ipotizzando che ambedue le parti restino nella maggioranza, la somma politica varrebbe meno del totale attuale. A maggior ragione, la ridistribuzione degli incarichi sarebbe necessaria se la gran parte della squadra di governo dovesse trovarsi in una sigla e il grosso degli eletti nell'altra. Pure il peso delle poltrone dovrebbe essere ridiscusso: potrebbe Di Maio, che oggi sembra intenzionato a restare con Grillo, mantenere il prestigioso incarico alla Farnesina, non essendo più espressione del primo partito? Le cose si complicherebbero ulteriormente qualora la fazione dell'avvocato pugliese iniziasse ad alzare i toni contro Draghi, come ha appena fatto il ministro Stefano Patuanelli (contiano) difendendo il «cashback». Perché pure la lealtà va messa in conto, quando si tratta di scegliere a chi affidare i ministeri.

 

 

CHI SE LA GODE?
C'è un solo modo, insomma, per evitare pianto e stridor di denti: far sì che il M5S rimanga, più o meno integro, nelle mani di uno dei due contendenti. Non a caso, è l'esito in cui spera Di Maio, che incarica i suoi collaboratori di dire che «il ministro sta lavorando, come sempre, per l'unità». Ma è l'ipotesi più improbabile. La spaccatura è profonda, Grillo non intende cedere alcunché e anche se molti dei suoi credono davvero che il comico sia bollito, basta la presenza del detestatissimo Vito Crimi al fianco di Conte per convincerli a non seguire l'ex premier. Pop corn in mano, i due Matteo, Renzi e Salvini, si godono la scena: sono loro i candidati a vincere la guerra tra Grillo e Conte. Per il toscano il premio è l'ennesima lezione di strategia inflitta a Letta e un possibile nuovo accordo col Pd: vista la pasta di cui sono fatti i grillini, i democratici presto potrebbero essere costretti a riaprire l'altro forno, quello con chi è a destra di loro, se non vorranno perdere ovunque. Il leghista, senza fare nulla, potrebbe svegliarsi una delle prossime mattine e scoprire di essere il primo azionista della maggioranza, dunque il principale interlocutore del premier. Per il povero Letta, che avrebbe voluto la Lega fuori dal governo, un altro enorme rospo da ingoiare.

 

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