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Mps, la banca di Siena dissanguata dai vampiri del Pd: alle origini della voragine da 30 miliardi

Una filiale di Mps

Sandro Iacometti
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Prevedere cosa succederà è difficile, ma sappiamo abbastanza bene cosa è successo. Già, perché lo stop alle trattative tra il Tesoro e Unicredit per la cessione/salvataggio di Mps non è il fallimento di una qualunque operazione di risiko bancario, come spesso accade. È l'ultimo tassello di una clamorosa e disastrosa ingerenza della politica nella finanza, l'ultimo atto di una tragico sconfinamento che solo negli ultimi 10 anni ha mandato in fumo circa 30 miliardi di euro, tra i soldi dei soci e quelli dei contribuenti. Gli autori della bravata hanno nomi e cognomi. Da Massimo D'Alema a Pier Carlo Padoan, da Paolo Gentiloni a Roberto Gualtieri, solo per citare i più noti. Tutti con la tessera di quel Pd che da quando nel simbolo c'era ancora la falce e il martello ha creduto che ficcare il naso in una banca privata, manipolarne la gestione ed orientarne il cammino non avrebbe avuto conseguenze. Che il Monte dei paschi fosse solo l'ennesima "cinghia di trasmissione" al servizio del partito, una specie di "coop rossa" dei prestiti, un giocattolino con cui gingillarsi e accrescere il proprio potere.

 

 

Com' è finita lo sappiamo. La scelta folle dell'acquisizione di Antonveneta nel 2008, il tentativo di nascondere i danni sotto il tappeto, gli aumenti di capitale a raffica per tamponare le perdite dal 2011 al 2015, il salvataggio pubblico nel 2017 (con il 64% finito in pancia allo Stato), le manovre, al limite del consentito, per fare in modo che Unicredit si facesse carico della patata bollente (con l'autore della nazionalizzazione, l'ex ministro dell'Economia, Padoan, finito a presiedere la banca milanese). Non c'è un episodio dove il Pd, con un amministratore amico, un ministro, un premier o un segretario, non ci abbia messo lo zampino. L'ultimo  capolavoro è quello di Enrico Letta, che in piena crisi del Monte decide di cogliere la palla al balzo e candidarsi proprio nel collegio di Siena (tra l'altro lasciato libero da Pier Carlo Padoan). Una mossa che ha congelato la trattativa e fatto perdere oltre un mese di tempo prezioso per il destino dei lavoratori della banca e dei soldi dei contribuenti. Il paradosso è che dopo averla usata e messa in ginocchio il Pd si sta rivelando ora anche il principale ostacolo alla sua salvezza. Non è un caso che Mario Draghi e Daniele Franco si siano tenuti alla larga dal dossier, facendo gestire la pratica al dg del Tesoro, Alessandro Rivera.

 

 

L'eredità dei dem pesa come un macigno sulla banca e rende politicamente complicata qualsiasi mossa. Comprese quelle che potrebbero limitare i danni di un epilogo che sarà comunque doloroso. Ora il Tesoro dovrà sborsare 3-4 miliardi di aumento per tenerla in vita, la banca pubblica Amco dovrà drenare parte delle sofferenze, qualcuno dovrà farsi carico degli esuberi che ci sono anche nel cosiddetto piano stand alone e Draghi dovrà andare in Europa col cappello in mano a chiedere altro tempo. In attesa di cosa non è ben chiaro. In ogni caso per Letta, che ora è pure parlamentare, è una bella giornata: «Il ministero dell'Economia ha fatto bene, da adesso in poi sono sicuro che ci saranno altre opzioni». Se le opzioni sono come quelle fino ad ora procurate dal Partito democratico, possiamo pure metterci l'anima in pace.

 

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