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Rosy Bindi, "schiaffoni" ad Enrico Letta: "Serve una terza via". Armi all'Ucraina, che roba è il Pd

Rosy Bindi

Fausto Carioti
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Che la politica italiana non sia in cima ai pensieri di Joe Biden è un dato di fatto. Lo conferma la mancanza di un ambasciatore di ruolo dal 17 febbraio del 2021, giorno in cui è finito il mandato di Lewis M. Eisenberg, scelto da Donald Trump nel 2017. Non significa, però, che tutto ciò che accade qui passi inosservato. Di certo non succede questo alle sortite di Giuseppe Conte, già sorvegliato speciale a causa dei rapporti del M5S con Pechino e Mosca, e a quelle dei dirigenti del Pd impegnati a fermare «la corsa al riarmo».

A sinistra, chi più tiene al rapporto con gli Stati Uniti è Enrico Letta, e come lui la pensano altri, tra cui Piero Fassino e il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Lo stesso, però, non si può dire di certi loro compagni di strada. Se prima, nel Pd, una certa "eterogeneità" era ritenuta utile, perché consentiva di pescare voti nell'antiamericanismo, adesso che il confronto con la Russia è al primo punto dell'agenda di Biden l'affidabilità atlantica diventa un requisito necessario.

 

 

Questo cambia le cose con Conte, che da «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» (Nicola Zingaretti dixit) si è trasformato in fonte di forte imbarazzo. Ma vale anche per molti di quelli che il Pd ha in pancia da sempre, e che hanno colto l'occasione per rialzare la voce: comunisti e cattocomunisti d'antan che in certe zone rappresentano ancora l'ossatura del partito.

Come il gruppo dei "rossi toscani" che ha appena inviato al parlamento e a Mario Draghi un appello in cui si legge che «l'aumento delle spese militari fino al 2% del Pil, chiesto dalla Nato, è non soltanto eticamente inaccettabile, ma politicamente sbagliato». Tra loro ci sono gli ex presidenti di regione Vannino Chiti, Claudio Martini ed Enrico Rossi, e spicca la badessa prodiana Rosy Bindi, che contesta l'aiuto militare agli ucraini e invoca «una terza via tra mainstream bellicista e pacifismo impolitico».

 

 

Messi insieme, quanto peserebbero nel "campo largo" di Letta i pentastellati filorussi e filocinesi, i cattolici pacifisti e i compagni legati all'Anpi e alla vecchia tradizione antioccidentale? Sarebbero in grado, dopo le elezioni, di far saltare gli impegni presi con gli Usa? Si spiega soprattutto così la voglia di legge proporzionale che prima era solo di alcuni (Zingaretti, la corrente minoritaria Base riformista) e ora sta contagiando i piani alti del Nazareno. Passare dal sistema attuale, che costringe a creare coalizioni ampie e raffazzonate, al proporzionale, col quale ognuno si presenta da solo, libererebbe tutti dall'obbligo di sopportarsi a vicenda. La cartina tornasole è Letta.

 

 

Il segretario ha sempre detto di volere una legge elettorale maggioritaria come il Mattarellum. È andata bene sino allo scoppio della guerra in Ucraina. L'insofferenza del Dipartimento di Stato americano verso i deragliamenti filoputiniani di Conte è stata comunicata ai dirigenti del Pd e Letta sa che presto potrebbe essere chiamato a scegliere tra l'alleato pugliese e quello atlantico. Così, ribaltando la propria posizione, ha fatto sapere di non avere nulla contro il sistema proporzionale, anzi. Andrebbe bene anche a Conte, e se l'abbracciasse pure Matteo Salvini sarebbe fatta. A elezioni avvenute, nulla impedirebbe agli atlantisti-draghiani dell'attuale maggioranza (inclusi gli uomini di Luigi Di Maio, libero a quel punto di farsi il suo partitino), di ritrovarsi sotto lo stesso tetto, e magari lo stesso premier. E senza Conte a fare da sponda, chi è sulle posizioni della Bindi non avrebbe grandi possibilità di incidere. La decisione sarà presa dopo le amministrative di giugno. Allora Letta saprà quanto vale davvero il M5S, e se l'aiuto che Conte può dare alla causa progressista vale il fastidio che provoca all'amico americano. 

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