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Sud, una questione irrisolta: come ridare dignità a metà del Paese

Salvini e Meloni

Francesco Carella
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Se mai lo avessimo dimenticato, il voto del 25 settembre scorso ci ricorda che esistono due Italie: l'una che vive al Centro-Nord e che chiede meno Stato per portare a termine un non più rinviabile processo di modernizzazione economico-sociale, l'altra, con le radici ben piantate nelle regioni meridionali, che affida il proprio futuro ai 5 Stelle nella speranza che il movimento guidato da Giuseppe Conte faccia le barricate in difesa del reddito di cittadinanza (erogato al Sud nella misura del 64%) e dello Stato bancomat. Fra i tanti gravi problemi che il prossimo governo dovrà affrontare vi è anche l'antica e mai risolta questione meridionale. Dacché lo storico partenopeo, Pasquale Villari, ne coniò l'espressione nel 1878 a compendio di un accurato studio circa le condizioni in cui versava la metà del Paese, il gotha dell'intellettualità italiana ha sempre indicato nel mancato sviluppo economico la causa principale dell'arretratezza del Mezzogiorno. Talché la soluzione via via proposta non poteva che essere quella di attivare politiche che consentissero un trasferimento cospicuo e costante di risorse finanziarie dallo Stato centrale in direzione delle regioni meridionali. In oltre un secolo e mezzo di storia unitaria i capitali- grazie agli interventi straordinari - dirottati verso il Sud hanno raggiunto cifre da capogiro, ma anziché colmare il divario territoriale lo hanno accentuato alimentando le peggiori pratiche di malgoverno e foraggiando, altresì, fasce non trascurabili di criminalità.

 

 

Il risultato finale è che ancora oggi vi è una parte di Paese che registra standard economici e civili sideralmente lontani dal resto d'Italia e dell'Europa. Una strada, quella seguita fin qui, che si spera venga abbandonata definitivamente dal prossimo governo soprattutto alla luce di quanto si evince da alcuni recenti studi di tipo comparativo che individuano le ragioni della crescente divaricazione Nord/Sud non già nel perimetro economico, ma in una "carenza primigenia di sviluppo sociale". «L'accumulazione e la conseguente distribuzione della ricchezza - scrive Sabino Cassese in "Lezioni sul meridionalismo"sono in diretto rapporto con l'assenza di fenomeni corruttivi, con il rispetto della legalità e con la possibilità di potere effettuare gli investimenti in un clima di certezza del diritto». In tal senso, si esprimeva il meridionalista Guido Dorso già nel lontano 1924 sulla gobettiana "Rivoluzione liberale" quando partendo dalla constatazione di una diffusa illegalità accanto a un pesante ritardo nella costruzione di uno Stato moderno nelle terre del Sud indicava "nella formazione di una qualificata e responsabile classe dirigente la via obbligata da percorrere per assicurare una crescita civile e culturale".

 

 

Per il fatto di avere ignorato le peculiarità culturali del Sud, la Destra storica commise l'errore (al pari delle classi politiche succedutesi fino ai giorni nostri) di credere che fosse possibile raggiungere lo stesso grado di sviluppo economico in tutta Italia attraverso la semplice omogeneità istituzionale. La realtà s' incaricò di dimostrare che le istituzioni camminano sulle gambe del capitale sociale (caratterizzato dalla presenza di élite indipendenti dal notabilato e da una fitta rete di rapporti fra i cittadini all'insegna del dialogo e della cooperazione) largamente assente ieri come oggi nel Sud Italia. È qui il vero nodo della questione meridionale. Scioglierlo non sarà impresa facile, ma non farlo significa abbandonare a un destino di sottosviluppo metà del nostro Paese. Per la gioia dei tanti demagoghi ancora in circolazione. 

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