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Gennaro Sangiuliano: "Meloni premier? Vi spiego la ribellione culturale"

Pietro Senaldi
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«Negli ultimi quindici anni siamo stati asfissiati da un conformismo e un'ipocrisia di pensiero figli dello stile liberal proveniente dal partito democratico americano e adottati acriticamente in Italia, un sistema di controllo del pensiero e rimodellamento delle coscienze che è anche peggio del vecchio marxismo che aveva una sua coerenza pur non condivisibile. In certi momenti sembrava di vedere in azione una sorta di nuova inquisizione spagnola. Impossibilità di dibattere, di entrare nel merito delle questioni, imposizione di un solo modo di vedere consentito».

Come si cambia registro rispetto al modello culturale imposto dalla sinistra in questi anni?
«Entrando nel merito delle questioni senza aderire a parole d'ordine precostituite. Ci sono aspetti della nostra società mai scandagliati, valutazioni introiettate per convenzione, perché qualcuno aveva detto che bisognava pensarla così».
 

La accuseranno di volere fare uno spoil system...
«Alt, io non voglio sostituire l'egemonia della sinistra nella cultura con un'egemonia di destra. Accanto al centenario di Gramsci, celebriamo adeguatamente anche quello di Pirandello, D'Annunzio, Prezzolini... La cultura dev' essere plurale, e in Italia da troppo tempo non lo è più».

Classe 1962, Gennaro Sangiuliano è uno degli uomini su cui Giorgia Meloni punta per cambiare la narrazione nazionale, che vede la destra minoritaria negli appuntamenti culturali, nei festival, nei salotti letterari, sui giornali, nelle manifestazioni pubbliche, malgrado il pensiero di destra sia maggioranza nella società. È un comunicatore, arriva al ministero della Cultura dalla direzione del Tg2, e la scelta di un giornalista per ribaltare il racconto del più grande cambiamento politico del Dopoguerra, una donna a Palazzo Chigi e un partito di destra alla guida dell'alleanza conservatrice e moderata non è casuale. «Ho due nobili predecessori» ricorda Sangiuliano, «perché prima di me già Giovanni Spadolini e Alberto Ronchey passarono dalla direzione di un giornale, rispettivamente dal Corriere della Sera e dalla Stampa, al governo, proprio come ministri della Cultura. Io lascio un pezzo di cuore nella professione, mi sono deciso al salto per provare a dare corpo e anima alle idee per le quali mi sono sempre speso».

Agenda folta, rapporti cordiali con tutti, da vent' anni in Rai, che conosce come le sue tasche, modi garbati ma idee chiarissime, Sangiuliano è uomo di relazioni, che sa cosa vuole e sa come arrivarci, ha la visione immaginifica dell'intellettuale e il pragmatismo decisionista del manager. Difficile trovare qualcuno che gli voglia male, è una goccia che scava, un passo ogni giorno alla volta verso l'obiettivo, che raggiunge sempre in modo inaspettato ma naturale. Appassionato della storia dei grandi, ne ha tratto certo utili insegnamenti.

Quali saranno le parole chiave della cultura della destra di governo?
«Nazione, concetto identitario e idealista rispetto a quello di Paese, che ha per lo più un significato socio-economico. Lo Stato italiano è nato nel 1860 al termine dell'epopea del Risorgimento, l'Italia identità culturale e umana, è ben anteriore. È in Dante Alighieri, in Machiavelli, nell'Umanesimo e nel Rinascimento e prima ancora nel mondo romano. Noi siamo eredi di questa tradizione e spesso ne abbiamo perduto la consapevolezza. Sposo la battaglia del compianto filosofo britannico Roger Scruton contro lo sradicamento identitario e la perdita di sacralità che si accompagna alle esplosioni edonistiche delle società occidentali».

Riuscirà a risvegliare il sentimento patriottico degli italiani?
«Patria sarà un'altra parola chiave della nostra narrazione. Richiama il valore della tradizione, quindi della storia, che sono all'origine del nostro patrimonio culturale. Nel lungo dopoguerra, la Patria era diventata una parola scomoda, lontana dal bon ton delle egemonie culturali, reietta a molti. Con essa la bandiera, l'inno e tutta la simbologia della nostra storia comune veniva fastidiosamente respinta. Guai a parlare di orgoglio dell'italianità, si veniva quantomeno bollati come fuori dal tempo».

Non corre appunto il rischio di proporre un modello che sa di antico, vagamente polveroso?
«No, perché la terza parola chiave è modernità, termine di destra perché la sinistra rappresenta da decenni l'antimodernità, il no a ogni cambiamento della società e dei rapporti tra gli individui. Se oggi siamo in una situazione energetica drammatica è perché la sinistra si è opposta alle scelte di modernizzazione che andavano prese. Prezzolini diceva che i progressisti guardano al domani ma i conservatori al dopodomani, che si può progettare solo salvaguardando i propri valori fondanti, altrimenti il salto diventa nel buio».

La sinistra ha fallito proprio per questa miopia?
«Per questa miopia e perché si è persa, ha smarrito la linearità e la coerenza di pensiero e di modello sociale che avevano Peppone e compagni. La nostra sinistra ha importato acriticamente il perbenismo anglosassone senza averne la tradizione e rinunciando alla propria identità. Il risultato è una melassa mal riuscita. Ha dimenticato che la libertà si realizza e si rafforza anche nel rispetto delle appartenenze tradizionali e culturali di ciascun popolo. Sono stati Tocqueville e Ortega y Gasset a ricordare che una società, autenticamente democratica, non può prescindere da un insieme di valori che è ampiamente condiviso e che trasforma gli individui in appartenenti alla nazione che cooperano per il perseguimento di fini comuni. La riconoscibilità della comune identità culturale e spirituale costituisce un valore irrinunciabile, un principio primo del senso civico».

Ha in mente una cultura sovranista, sembrerebbe...
«Sovranista no, italianista sì. Mazzini diceva che un sano sentimento di nazionalità non va confuso con il nazionalismo, altrimenti si commette lo stesso errore di chi confonde religione e superstizione».

Un governo di destra con la prima donna presidente del Consiglio: per l'Italia è più una rivoluzione politica o una rivoluzione culturale?
«È una rivoluzione politica che nasce da una rivoluzione culturale.
Gli italiani si sono ribellati democraticamente, con il voto, a decenni di cappa politica della sinistra. "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza". In questa frase di Dante c'è tutto il valore di un pensiero critico».

Il primo consiglio dei ministri è stato accusato di avere dato il là a provvedimenti troppo e inutilmente identitari...
«Stiamo attuando il nostro programma di governo, non possiamo e non volgiamo attuare quello della sinistra».

Nella pratica come marcherà la discontinuità con il suo predecessore piddino, il ministro Franceschini?
«Sui contenuti, questione divisione: lui è un cattlico di sinistra io un liberal conservatore».

Metterà mano alla piattaforma ItsArt, il grande fiasco di Franceschini?
«Brucia denaro e comunica poco. Il governo precedente la difendeva solo per non ammettere il proprio fallimento, mi sembra inevitabile cambiare».

Lei viene dalla Rai, che è considerata la maggiore azienda culturale italiana: condivide il giudizio e ha in mente particolari sinergie con il suo ministero?
«Porterò il mio lavoro giornalistico al ministero. Ci sarà un'osmosi, già da direttore del tg ho realizzato parecchi approfondimenti culturali. La cultura è essenziale, necessaria, per reagire al declino italiano e la Rai, che è servizio pubblico, ha il dovere di rappresentare tutte le sensibilità culturali della nazione, rispecchiando le peculiarità qualitative e quantitative italiane».

Come riuscirà il governo a rappresentare tanto la propria anima sociale, incarnata da Fdi, quanto quella più libertaria, ispirata da Lega e Forza Italia?
«Applicando il capitalismo compassionevole teorizzato dal filosofo tedesco Weber, una via di mezzo tra il turbo capitalismo anglosassone e l'economia keynesiana».

Il filologo e politologo Ruggero Bonghi sosteneva che l'Italia non ha mai avuto una vera destra liberale e conservatrice perché il suo sforzo si è esaurito nel realizzare l'unità d'Italia e quindi è stata fagocitata dalla monarchia...
«Ha in parte ragione. Però è anche vero che l'Italia non è nata nel 1860 ma si è venuta definendo attraverso una storia millenaria che ha avuto nel Risorgimento il suo efficace riconoscimento in Stato nazionale. Prima ancora, l'Italia si era forgiata attraverso le tappe del diritto romano, dell'umanesimo, della letteratura volgare, del Rinascimento e del Romanticismo. All'unità politica il nostro Paese ha fatto precedere quella culturale e linguistica».

Quali sono i modelli culturali che auspica verranno introdotti o troveranno maggiore spazio nella scuola?
«Quando ero giovane io, la scuola aveva l'obiettivo di fornire una cultura agli studenti, ora sembra inseguire solo finalità funzionali, senza peraltro riuscirci bene. Io credo che la cultura e i libri debbano tornare al centro della formazione dei giovani. Oggi se li porti al museo, anziché guardare i quadri si scambiano sms sul telefonino».

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