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Sinistra, l'ultimo delirio: "Parola fascista", cosa vogliono vietarci

Massimo Arcangeli
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«Italiani, boicottate le parole straniere» è lo slogan con cui fu lanciata dal regime fascista, all'inizio del secondo conflitto mondiale, l'iniziativa di legge contro i forestierismi; per ironia della sorte, però, boicottare era a sua volta uno stranierismo, a tal punto mimetizzato e "internazionalizzato", osservò un giornalista sul Resto del Carlino (29 gennaio 1941), «da sgusciare persino dalle mani dei più acuti e vigili puristi». La lingua, se non stiamo attenti, ci si ritorce contro, e quando non si ha la benché minima coscienza culturale di quel che si dice, quando l'oggetto del discorso è una parola o un'espressione di cui s' ignora perfino l'abbiccì, allora si può superare anche il senso del ridicolo. Non bastava nazione, ora pure bivacco maleodora di fascismo.

 

 

 


CENT' ANNI FA

È il 16 novembre 1922. Benito Mussolini, a poco più di due settimane dalla marcia sulla Capitale, tiene alla Camera da presidente del Consiglio incaricato, prima di ottenere la fiducia, il "discorso del bivacco": «Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. [...] Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. [...] Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. [...] Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per accogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare» ("Atti parlamentari.
Camera dei deputati", CLXXXVIII, Tornata di giovedì 16 novembre 1922. Comunicazioni del Governo, p. 8390 sg.).

 

 

 

 

Avrebbe replicato fra gli altri il penalista toscano Giovanni Rosadi, esponente della destra liberale: «Qui, in quest' aula che per poco non avete convertito in un bivacco di camicie nere, quasi non siete che voi, a imitazione dei Re di Francia, ciascuno dei quali soleva dire "Lo Stato sono io, dopo me non c'è che il diluvio"». Ora, secondo Sergio D'Angelo e Rosario Andreozzi, due consiglieri di sinistra del Comune di Napoli, la parola bivacco ricorderebbe un altro discorso del Duce, quello pronunciato il 25 gennaio 1925, a più di sei mesi dall'omicidio di Giacomo Matteotti, e dovrebbe per ciò stesso essere espunta dall'art. 10 del Regolamento della polizia municipale partenopea in materia di sicurezza urbana: «È vietato il bivacco, si legge, ovvero lo stazionamento, anche occasionale, consumando cibi e o bevande, ove presenti sui sagrati dei luoghi di culto, dei monumenti e in prossimità di palazzi ed edifici di interesse artistico-monumentale».

La cosa più incredibile della vicenda è il fatto che il Comune di Napoli l'oggetto di quel fascistico bivacco, una vecchia e innocua parola di origine francese (bivouac, bivac) casualmente intercettata dal Fascismo, non lo sta neanche avallando ma intende invece contrastarlo. Nel discorso alla Camera del 25 gennaio 1925, in cui non fa peraltro alcun cenno a un bivacco (dice solo, in apertura: «Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure traverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre»), Mussolini dice a un certo punto: «Il mio discorso sarà [...] tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell'avvenire». Compagno? Parola fascistissima. Bandiamola. 

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