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Letta, un segreto inconfessabile: "Cosa lo ha ucciso"

Renzi e Letta

Fausto Carioti
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Se Enrico Letta merita un posto tra i peggiori del 2022, non è per ciò che ha fatto prima del 25 settembre. È vero, al suo Pd è andata come peggio non si poteva, con il 19% dei voti e una quota inferiore di eletti. Ma in quell'occasione il nostro pisano preferito ha pagato anche colpe non sue. Insomma, se Carlo Calenda il 2 agosto sottoscrive un patto di alleanza, che avrebbe consentito al centrosinistra di portare a casa qualche decina di collegi in più, e poi il 7 agosto lo strappa, il problema è anche del Churchill con le cotiche, non solo del professorino democratico che è stato così gonzo da credergli.
Certo, chi mastica politica, nel Pd, racconta che a fregarlo è stata la smania di seppellire Matteo Renzi.

Avesse stretto subito un accordo elettorale col suo avversario fiorentino, Letta avrebbe costretto Calenda a unirsi a loro, perché Renzi aveva il simbolo elettorale di Italia viva, che consentiva di presentarsi alle elezioni senza raccogliere le firme, mentre Calenda non possedeva nulla di simile e molto difficilmente avrebbe potuto trovare in pochi giorni le decine di migliaia di firme necessarie a mettere in campo i candidati di Azione. Lo hanno spiegato in tanti a Letta, in quei giorni d'estate, ma chiedergli di raggiungere un'intesa con Renzi era pretendere troppo da lui. Così è andata come si sa. La tragedia vera, però, è quella che si è vista dopo il voto. Letta avrebbe dovuto smettere di agitare il Babau in camicia nera, il cui unico risultato, in campagna elettorale, era stato quello di premiare Giorgia Meloni, giacché gli italiani non credono alle isterie sul fascismo risorgente. Invece ha fatto l'esatto contrario, insistendo sulla ricetta perdente. Così il tracollo è proseguito: il Pd, nella media dei sondaggi, oggi è al di sotto del 16%, e ogni giorno dona altro sangue ai Cinque Stelle, mentre Fdi continua a guadagnare consensi.

All'indomani della batosta, Letta avrebbe dovuto anche accelerare le pratiche per la successione, in modo che il nuovo segretario si insediasse già a novembre, imponesse una linea chiara (si torna al rosso antico osi prova a diventare davvero un partito riformista?), scegliesse gli alleati giusti per portarla avanti e assieme a loro individuasse due candidati alla presidenza della Lombardia e del Lazio in grado di giocarsela. Ma pure in questo caso ha fatto il contrario di ciò che era giusto: tempi lunghissimi e prolungamento dell'agonia, nessuna alleanza nazionale definita, candidati - Pierfrancesco Majorino e Alessio D'Amato - ad alta probabilità di sconfitta. Allo sventurato che vincerà le primarie del 19 febbraio, Letta lascia così un Pd depresso, confuso e in ritirata ovunque, senza alleati né identità. E dire che l'esempio negativo lo aveva in casa a Parigi, prima di tornare in Italia. Il Partito socialista francese è morto proprio così: abbandonato da un lato dagli arrabbiati che si riconoscono nella gauche dura e pura di Jean-Luc Mélenchon, dall'altro dai ceti riflessivi che hanno scelto Emmanuel Macron; in mezzo, la salma del fu partito a vocazione maggioritaria. Trovatosi, un brutto giorno, senza più nulla di interessante da dire e nessuno da rappresentare.

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