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L'Antimafia zittirebbe pure Sciascia: un potere perverso

Iuri Maria Prado
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Potrebbe oggi Leonardo Sciascia scrivere quel che scrisse di una certa antimafia, del fatto che nulla vale di più, per far carriera nella magistratura, «del prender parte a processi di stampo mafioso»? Potrebbe scrivere che una certa antimafia si è ridotta, anzi si è elevata, a strumento di potere, in nome del quale si sono prodotte lesioni di diritti e di libertà tali da far impazzire la bussola democratica, «come nemmeno il fascismo c’è riuscito»?

 


Potrebbe scrivere queste cose in un diario, ma non gliele pubblicherebbero, oggi, i giornali che invece allora lo facevano bestemmiare in quel modo (perché anche allora, se non completamente clandestine, quelle erano comunque bestemmie nell’Italia dell’antimafia di potere). E non gliele pubblicherebbero oggi perché oggi quella cultura del potere antimafia ha vinto, e contro il diritto, contro i diritti delle persone, contro il sistema democratico rappresentativo, si è imposta a fare stato sullo Stato turbando il corso politico del Paese, imperversando nel circuito economico e produttivo, occupando e infestando il dibattito pubblico.

 

E lasciando dietro al suo percorso di arbitrio vite distrutte, famiglie distrutte, carriere distrutte, patrimoni distrutti, aziende distrutte: in nome di quel tipo perverso di militanza antimafia che poco male ha fatto al crimine organizzato e molto male ha fatto all’Italia. Mai dimenticare che aveva l’aura della missione anticamorra la requisitoria che reclamava e otteneva il carcere per il «cinico mercante di morte». Eva molto bene che sui muri dei palazzi di giustizia stiano i profili di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati così diversi rispetto a tanti loro sussiegosi epigoni: ma accanto a quelli dovrebbe stare il ritratto di Enzo Tortora in manette. Sarebbe una giustizia più affidabile quella che riconoscesse gli abusi di cui è stata capace.

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