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Giuseppe Conte & Co: chi ha distrutto i conti (e ora accusa la Meloni)

Fausto Carioti
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Per capire la differenza tra le promesse e i risultati bisogna fare un salto indietro. Al 20 agosto del 2020. Quando il ministro dell’Economia del governo giallorosso, il piddino Roberto Gualtieri, firmò il provvedimento interministeriale che rendeva operativo il Superbonus del 110% sulle ristrutturazioni edilizie per l’efficienza energetica, previsto nel “decreto Rilancio” scritto da Giuseppe Conte e lo stesso Gualtieri tre mesi prima. «Nel segno del Green New Deal», disse il ministro, «continuiamo nel cammino per un futuro più sostenibile e per fare dell’Italia il primo Paese a impatto zero sul clima, a partire dalle nostre case. Questo permetterà di rivalutare il patrimonio immobiliare e di dare un forte impulso agli investimenti in una filiera fondamentale per l’economia».

Gualtieri, che pure era ministro dell’Economia, si guardò bene dal parlare della sostenibilità che lo riguardava direttamente: quella economica. E lo stesso fecero il segretario del suo partito, Nicola Zingaretti, e tutti i dirigenti del Pd che mesi dopo avrebbero sposato con entusiasmo la dottrina, ben più severa, di Mario Draghi.
In quel governo guidato da Conte la tenuta dei conti dello Stato era l’ultima delle preoccupazioni. Anzi: più si spendeva e meglio era. Così prevedeva infatti il patto coi Cinque Stelle, impegnati a comprarsi la simpatia e i voti degli elettori coi soldi che gli stessi elettori, o i loro figli, avrebbero dovuto poi pagare sotto forma di maggiori tasse o maggior debito pubblico.

 


Insomma, quella che il ministro Giancarlo Giorgetti definisce ora «una politica scellerata», che ha finito per creare un «bubbone» di 110 miliardi di euro in crediti d’imposta: oltre 61 miliardi (già accertati, ma non definitivi e destinati quindi ad aumentare) dovuti al bonus del 110%, il resto a quello per le facciate e alle altre agevolazioni fiscali per i lavori edilizi. Minori entrate che il governo attuale e quelli che gli seguiranno dovranno in qualche modo gestire. Una massa di crediti che gli stessi intermediari avevano smesso di trattare, preoccupati perché il sistema era a un passo dal collasso.

A conti fatti ciò che gli italiani (o meglio una parte di loro: ad oggi si contano 15 asseverazioni ogni mille famiglie) hanno ottenuto grazie a Conte e Gualtieri, oltre al balzo del fatturato dell’edilizia, è un ammodernamento degli immobili. Realizzato però a carissimo costo, come già denunciato da Draghi lo scorso maggio: «I prezzi degli investimenti necessari per le ristrutturazioni sono più che triplicati, perché il 110%, di per sé, toglie l’incentivo alla trattativa sul prezzo». Così ora c’è un debito ulteriore di 2.000 euro sulla testa ogni italiano, inclusi i neonati e coloro che non hanno usufruito dei bonus. Non è affatto detto, peraltro, che l’operazione serva a rendere le case italiane compatibili con gli standard di efficienza energetica imposti dalla Ue. Entro il 2025 è prevista infatti l’introduzione di nuovi criteri, uniformi per tutti gli Stati (oggi è una babele), e niente garantisce che gli interventi di riqualificazione finanziati col Superbonus siano in linea con i parametri che Bruxelles imporrà.

 

 

Ci sono tutte le ragioni, insomma, perché un partito che si presenta agli italiani come l’unica forza responsabile del parlamento, il guardiano della tenuta dei conti pubblici e il punto di riferimento delle istituzioni europee in Italia, apprezzi la fine del meccanismo basato sugli sconti in fattura e la cessione dei crediti dei bonus edilizi. E invece il Pd sta facendo l’esatto contrario, gareggiando con i suoi ex alleati pentastellati a chi profetizza la catastrofe peggiore. Il proba bile futuro segretario, Stefano Bonaccini, parla di «bagno di sangue» in arrivo, di mostrando di essere, almeno in questo caso, allineato con la sua rivale Elly Schlein. I de putati dem sostengono che il provvedimento «va contro i più deboli e colpisce il pro dotto interno lordo del Paese» e l’ex ministro Andrea Orlando prevede la distruzione di posti di lavoro equivalenti a «due Stellantis + Luxottica». Ogni commento che esce da lì gronda di espressioni come «catastrofe sociale» e «tragedia». Proprio come avviene in casa dei Cinque Stelle, dove Conte promette la mobilitazione contro il «decreto vergogna». Il sindacato edili della Cgil ha già chiesto alle sigle delle altre confederazioni di unirsi alla lotta, tira aria di sciopero di categoria e piddini e grillini tornano a pensare alla piazza come strumento per indebolire il governo. L’unico che nell’opposizione nuota controcorrente è Carlo Calenda: «Giorgetti», dice, «ha ragione sull’importo dei bonus. Con 120 miliardi metti a posto la sanità per quindici anni». Vaglielo a spiegare.

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