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Elly Schlein e Meloni, il gesto a fine scontro: tutti spiazzati

Fausto Carioti
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È il primo match di una serie che potrebbe essere lunghissima, lo sa Giorgia Meloni e lo sa Elly Schlein. L’arena è l’aula di Montecitorio. È anche la prima volta in cui la presidente del consiglio risponde al “question time”, il botta e risposta tra i parlamentari, che presentano le loro interrogazioni, e i membri del governo. Un rituale utile ai fini televisivi: gli esponenti dell’opposizione hanno già le repliche pronte in cui si lamentano delle risposte dell’esecutivo; quelli della maggioranza si sa che si dichiareranno entusiasti, ognuno ha il proprio coro che applaude e contesta al momento giusto.


Per la Schlein è il battesimo parlamentare da segretaria del Pd. È in mezzo a Chiara Gribaudo, una delle fedelissime che ha voluto accanto a sé come vicesegretaria, e Debora Serracchiani, che si era schierata con Stefano Bonaccini e adesso, dice una malalingua del suo partito, «sta cercando di farsi buona Elly nella speranza di restare capogruppo». Enrico Letta le guarda: non è lontano, ma sembra trovarsi in un altro mondo e in un’altra epoca. Giuseppe Conte è seduto qualche scranno più al centro, in mezzo ai suoi e con i capelli catramati di fresco.

 

 

 

Il confronto tra le due dura dieci minuti, durante i quali nessuna affonda il colpo. È chiaro che Giorgia Meloni non intende incoronare l’altra come rivale diretta: riservarle un trattamento di particolare durezza sarebbe come farle un favore. Certi privilegi vanno meritati, bisogna sudarseli sul campo.
La premier non ha bisogno di andarci pesante anche perché ha fatto tutto la Schlein, assieme ai deputati del Pd con cui ha firmato l’interrogazione. Chiedono alla Meloni «quali siano le ragioni della contrarietà alla sperimentazione del salario minimo legale», bandiera sotto cui la leader piddina vorrebbe raggruppare le opposizioni. Denunciano che «l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%) nonostante l’aumento della produttività».

 

L’ARMA DELL’IRONIA

Basta questo a rendere facile il lavoro della premier, che sceglie l’ironia: «Gli interroganti del Partito democratico fanno rilevare, con una sincerità che fa loro onore, che in Italia, negli anni passati, la quota di prodotto interno lordo destinata a salari e stipendi è diminuita più che nel resto degli altri Stati industrializzati. È vero: c’è un problema. Chi ha governato fino ad ora ha reso purtroppo più poveri i lavoratori italiani e questo governo deve fare quello che può per invertire la rotta». Applausi nel centrodestra, scorno comprensibile tra i deputati del Pd. A governare, in quei trent’anni, sono stati soprattutto loro: con Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e il Conte giallorosso. E il suo governo, dice la Meloni, ora ha il compito di rimediare ai danni fatti da costoro al tenore di vita dei lavoratori.

 

 

 

 

Elly Schlein, insomma, ha scelto l’argomento sbagliato. Anche perché, quanto ad anima “sociale” ed empatia con i ceti medi e bassi, la fondatrice di Fdi non ha nulla da imparare dalla segretaria del Pd, che ai lavoratori impoveriti propone la chiusura delle industrie energivore e l’acquisto di automobili elettriche. Respinta al mittente, ovviamente, la richiesta di introdurre un salario minimo fissato per legge. Il pericolo, spiega la premier, è che una simile novità crei, «per molti lavoratori, condizioni peggiori di quelle che hanno oggie di fare, per paradosso, un favore alle grandi concentrazioni economiche, alle quali conviene rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori».

 

I CONGEDI PARENTALI

Le soluzioni cui sta lavorando il governo sono altre, e consistono nell’estendere la contrattazione collettiva ai settori in cui non è prevista e nel taglio delle imposte sul lavoro, «perché la ragione perla quale i salari sono inadeguati è che la tassazione è troppo alta». Porte aperte, invece, al confronto per il rafforzamento dei congedi parentali: ma era già scritto nel programma di Fdi, non è una concessione alla sinistra. Alla Schlein, nella replica, non resta che cercare rifugio sul terreno che più le è congeniale, quello dell’immigrazione e delle coppie omosessuali: «Le vostre vere emergenze sono i rave, i condoni, la guerra alle Ong e colpire ideologicamente i diritti delle figlie e dei figli delle famiglie omogenitoriali». Brucia però dal desiderio di essere riconosciuta come l’anti-Meloni, e lo dimostra quando dice alla premier che «lei, oggi, è al governo; ci sono io all’opposizione»: prima persona singolare. Alla fine, l’applaudono solo i suoi. Nel M5S e nel terzo polo nessuno si sbraccia per lei, anzi ostentano indifferenza. Ai Cinque Stelle non piace lo “scippo” del salario minimo, argomento che considerano loro. Tanto che Conte, poco prima che la Schlein prendesse parola, aveva annunciato la calendarizzazione della proposta di legge firmata da lui. L’unità delle opposizioni è lontana. Quando la liturgia è terminata e tutti si alzano, la segretaria del Pd fa un cenno alla Meloni. Si vengono incontro, la stretta di mano è rapida. Un gesto di fair play, bello per tutte e due, ma non sarà dalla premier che la Schlein otterrà l’accreditamento come leader dell’opposizione. 

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