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La sinistra impari da Juanita Castro, che si ribellò ai fratelli patriarcali

Antonio Socci
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Veniamo da settimane di martellamento ideologico contro gli uomini che, ci è stato detto, hanno il “patriarcato” incorporato dalla nascita e dovrebbero nutrire sensi di colpa perché, in quanto maschi, sarebbero tendenzialmente arroganti e oppressori delle donne. È una teoria infondata se consideriamo l’occidente. Ma c’è una storia che rientra in questo schema: due maschi, due fratelli, addirittura tirannici. E dall’altra parte una donna, una sorella, che si ribella al loro regime in nome della libertà. Eroicamente.

I due maschi sono stati politici potenti, che hanno schiacciato la libertà del loro popolo. La sorella invece è scappata dal suo Paese, cioè dal regime dei due fratelli, ed è vissuta come esule. Ci si aspetterebbe perciò che lei, Juanita, fosse un simbolo per quella folla che ha manifestato a Roma il 25 novembre. Invece non lo è. Ieri Repubblica, in una pagina dedicata al “pantheon delle nuove femministe”, ha elencato le icone che vanno perla maggiore: da Simone de Beauvoir a Michela Murgia, da Angela Davis a Carla Lonzi, da Anna Kuliscioff a Barbie e a Cristina Torres-Caceres per la sua stracitata poesia, perché – scrive sempre Repubblica – “se dagli Stati Uniti importano la teoria, è il Sud America il laboratorio a cui s’ispira il movimento”.

 

 

 

Bene, Juanita è appunto figlia dell’America Latina. Se davvero volessero “tenere insieme tutte le soggettività oppresse e marginalizzate”, come dicono, Juanita sarebbe perfetta per quel pantheon: una bandiera della libertà contro l’oppressione dei maschi. Eppure non sembra suscitare il loro interesse. E probabilmente non sarà presa in considerazione nemmeno in futuro, dalle manifestanti di “Non una di meno”, né dallo stato maggiore della Sinistra che ha fatto sua la bandiera della lotta al patriarcato. Il problema? Il cognome di Juanita che rimanda a un’intoccabile casta rossa. I due fratelli di cui parlavamo infatti sono Fidel e Raul Castro, simboli di quella Cuba comunista che per decenni ha fatto battere di commozione il cuore a sinistra.

Invece lei, Juanita Castro, è morta il 4 dicembre all’età di 90 anni, in Florida, come esule per essersi opposta alla loro tirannia. All’inizio aveva sostenuto i due fratelli Fidel (a cui era molto legata) e Raul in lotta contro il dittatore cubano del tempo, Fulgencio Batista, fino alla vittoria del 1° gennaio 1959. Anche lei collaborò con loro, dandosi da fare nella ricerca di fondi per ospedali e scuole. Ma nel giro di pochi mesi il nuovo regime cubano prese connotati sempre più dispotici e infine comunisti.

Juanita era cattolica e anticomunista. Ieri Carlo Nicolato, su queste colonne, ne ha fatto un bel ritratto. Ha spiegato che la sorella di Fidel divenne “punto di riferimento segreto” degli oppositori. Fidel la ammonì più volte, ma Juanita arrivò pure a scontrarsi pesantemente con Che Guevara, che era fra i più duri del regime (è stato definito “filosovietico convinto” da Pascal Fontaine). Juanita clandestinamente cominciò a collaborare con la Cia, pur avvertendo che «non voleva soldi, né violenza contro i suoi fratelli». Pare che abbia aiutato più di duecento persone a fuggire da Cuba dopo l’instaurazione del regime che aveva fatto un fiume di vittime e che perseguitava – oltreché dissidenti e cattolici - anche gli omosessuali. Nelle carceri di Fidel, ha scritto Fontaine, “la situazione delle donne” era “particolarmente drammatica” perché venivano “date in pasto al sadismo delle guardie”. Quindi in condizioni durissime. È stato scritto che Juanita ebbe lo scontro definitivo con Fidel quando lui attaccò la proprietà privata, perché avevano terre di famiglia.

 

 

 

Ma in realtà lei, come si è detto, era già un’attivista clandestina. Inoltre nella Cuba comunista era il Partito, cioè Fidel, che diventava padrone del Paese, quindi se lei fosse rimasta a fianco dei due fratelli avrebbe potuto godere i privilegi di casta della loro tirannia, ben maggiori di una tenuta agricola. In realtà fu la morte della madre nel 1964 a farla sentire senza più protezioni, esposta a molti rischi. Così fuggìin Messico, rinunciando a tutto, là fece una conferenza stampa e dichiarò pubblicamente la sua opposizione: «Non posso rimanere indifferente» disse «a quello che sta succedendo nel mio Paese. I miei fratelli Fidel e Raul hanno trasformato Cuba in un’enorme prigione circondata dal mare.

La gente è inchiodata su una croce di tormento imposta dal comunismo internazionale». Fu considerata una traditrice dal regime. Rimase un anno in Messico, poi andò in Florida e aprì una farmacia a Miami, dove non le fu facile farsi accettare nella comunità degli esuli cubani. Nel 1984 ottenne la cittadinanza statunitense e per tutta la sua vita continuò a battersi pubblicamente con coraggio contro il regime comunista cubano, in difesa della libertà. Portando sempre nel cuore un’immensa nostalgia per la sua terra, che non ha rivisto più, ma anche la pietà per Fidel, che era pur sempre suo fratello, quando seppe della sua malattia e della sua morte nel 2016. La sua biografa e amica Maria Antonieta Collins l’ha definita «una donna eccezionale, una combattente instancabile per la causa della sua Cuba che amò tanto». E per la quale ha pagato un prezzo molto alto.

Eppure è stato il fratello dittatore, Fidel, con Che Guevara, a diventare un mito delle piazze europee e ad essere osannato a sinistra come simbolo di libertà. Invece era vero l’esatto contrario. Simbolo di libertà era piuttosto Juanita, che gli si oppose rinunciando a tutto. Dovrebbe diventare una bandiera per “le nuove femministe”. Ma essendo stata cattolica e anticomunista continuerà ad essere ignorata. Anche da quella sinistra che ha acclamato per anni la tirannia maschilista dei barbudos comunisti.

 

 

 

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