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Autonomia, la spinta dei padri costituenti: un tema a lungo dibattuto

Francesco Carella
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Vale la pena, nel commentare l’approvazione da parte del Senato del Ddl sull’Autonomia differenziata, ripartire, al rischio di risultare ripetitivi, dalle considerazioni che Gianfranco Miglio affidò nel lontano 28 dicembre 1975 al Corriere della Sera, quando disse, suscitando polemiche furenti, che «se qualcuno vorrà governare questo Paese non potrà mai farlo seriamente senza riconoscere che esso non fu mai né sarà mai per una folla di ragioni - uno Stato unitario». Un’affermazione che lo scienziato politico fece non per spirito polemico.

Egli sapeva, da profondo conoscitore qual era della storia d’Italia, che dall’Unità in poi il tema del federalismo, pur essendo stato contrastato in tempi e modi differenti, non è mai scomparso dal dibattito pubblico per ragioni legate alla stessa nascita della nazione. Del resto, i tanti detrattori della tesi di Miglio avrebbero potuto consultare un semplice manuale di storia per apprendere che già nei primi mesi del 1861 la Destra storica nell’affrontare la questione istituzionale pensò al decentramento amministrativo come fulcro del giovane Stato italiano, mentre solo dopo l’insorgenza meridionale per mano del brigantaggio decise di fare macchina indietro nell’illusione di potere superare con la centralizzazione le grandi differenze economiche e socio-culturali esistenti fra gli Stati pre-unitari.

LA GRANDE GUERRA
Si trattò di una scelta che non favorì né la riduzione del divario fra Nord e Sud, né innescò il difficile, ma indispensabile processo di nazionalizzazione. Nondimeno, l’idea di una diversa articolazione dei poteri fra centro e periferia non è mai sparita del tutto, come dicevamo, dal discorso politico italiano, ricomparendo con forza ogniqualvolta il Paese ha dovuto fare i conti con una crisi di sistema. Tutto ciò è avvenuto nell’ultimo e convulso decennio del XIX secolo; subito dopo la Grande guerra, quando si presentò in modo drammatico il nodo di una nuova organizzazione da dare allo Stato come risposta all’avvento della società di massa; il tema si ripropose nel 1944-45 nel momento in cui si trattava di scegliere l’architettura istituzionale per la ritrovata democrazia; l’argomento divenne di nuovo di attualità all’indomani della distruzione della prima Repubblica nel “biennio rosso” 1992-93.

In occasione di tali e diversi passaggi storici tutti coloro che proponevano un’uscita in senso federalista dalla crisi puntavano (ieri come oggi) al raggiungimento di un duplice obiettivo: incentivare le dinamiche economiche di quella parte di Paese già inserito nei circuiti internazionali moderni e introdurre nelle regioni meridionali (come sostenevano intellettuali della caratura di Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Carlo Rosselli, Emilio Lussu, per limitarci a pochi nomi) un principio di responsabilità poco frequentato sia dalla classe politica che dalla società civile. In tal senso, in sede di Assemblea costituente si sviluppò un ricco dibattito che vide impegnati, fra gli altri, il grande giurista Piero Calamandrei e il futuro capo dello Stato, Luigi Einaudi. 

Alla fine la Repubblica, a causa di una marcata diffidenza fra le maggiori famiglie politiche, nacque nel segno della centralizzazione. Si evitò, ancora una volta, di sciogliere i nodi presenti fin dalla nascita dello Stato nazionale. Il resto è cronaca degli ultimi anni. Ora che si è a un passo dallo sciogliere quei nodi a coloro che si agitano prefigurando scenari apocalittici ricordiamo ciò che scrisse Carlo Cattaneo ovvero che «il diritto federale, ossia il diritto dei popoli, deve avere il suo luogo accanto al diritto della nazione. Uomini frivoli contestano tutto ciò con l’argomento che si tratta del sistema delle vecchie repubblichette. Risponderemo ridendo e additando loro l’immensa America».

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