Il grande equivoco dell'etica: l'illusione di imporre il bene con le regole
L’etica è un po’ come il coraggio di Don Abbondio: se uno non ce l’ha, nessuno può dargliela. Oppure, come il potere, il quale, come è noto, si pratica ma non si ostenta. Non è forse un caso, allora, che mai come nel nostro tempo l’etica, o se preferite la “questione morale”, sia al centro di tanti bei discorsi cui spesso seguono, in maniera quasi proporzionale, fatti del tutto opposti. Che si siano perse le coordinate morali, quei cardini di shakespeariana memoria che reggevano il mondo, è del tutto evidente.
È un processo storico ineluttabile, un dato di fatto che, come sempre accade, può celare tante opportunità quanti sono indubbiamente i rischi. Certo, solo un ingenuo o un furbo, o chi è proprio disorientato e senza strumenti intellettuali, può pensare o proporre di arginare la deriva morale di un’organizzazione odi un partito politico con rimedi tanto semplici quanto inappropriati come la stesura dei cosiddetti “codici etici”. Che Elly Schlein abbia pensato di rispondere ai seri problemi del suo partito, che la cronaca sta mettendo impietosamente in luce in questi giorni, annunciando un “codice etico” rigido e una “rivoluzione morale” quasi palingenetica, dimostra ancora una volta l’inadeguatezza politica di una leadership che ha rotto con il passato comunista proprio lì dove sarebbe stato opportuno non farlo: nella rigorosa concezione realistica, e quindi morale (non moralistica), della politica. Come dare torto a Massimo Cacciari che ha parlato di una «pandemia di rincitrullimento» che sta colpendo la sinistra?
Il codice etico, fra l’altro, è qualcosa che in politica arriva tardi, mutuato da quella cultura manageriale che, su questo fronte, insiste da circa un quarto di secolo. L’imprenditore moderno, in effetti, quasi si vergogna del fatto che faccia profitto, o comunque intende giustificarsi davanti al suo pubblico di consumatori quasi negandolo. Il codice si è così affiancato, negli anni, ad altre mille “soluzioni” o accorgimenti “etici” ad esso assimilabili: dalla nomina di saggi o garanti alla stesura dei cosiddetti “bilanci sociali”. Il tutto in un proliferare di enti e organismi di controllo che ha fatto la felicità della burocrazia.
Come poteva, allora, tenersi fuori da questo processo lo Stato con la sua onnivora e pervasiva amministrazione? Ad un certo punto, si è fatto credere che il “rinnovamento” del Leviatano sarebbe passato attraverso l’adozione di questo mal concepito “aziendalismo”, il quale ovviamente, alla prova dei fatti, ha finito per confermare ed anzi accrescere una sola cosa: lo strapotere della stessa burocrazia. Non poteva essere altrimenti, a rigor di logica: quella di governare il mondo agendo sulle regole e non sulle coscienze è non solo una pia illusione, ma anche un modo sicuro per chi vuole barare al gioco nascondendosi dietro mille cavilli o semplicemente controllando o corrompendo il “regolatore”. Che questo modello sia ora adottato dalla politica, è poi addirittura paradossale, e ci fa capire non poco a che livello profondo di crisi essa sia giunta. Non dovrebbe infatti essere proprio la politica, come ci ha insegnato Hannah Arendt, il regno del trionfo della capacità di decidere e di “iniziare”, cioè di dar vita a qualcosa di nuovo, e cioè in fondo della nostra libertà?
Provando infine a leggere questi statuti o codici etici, spesso commissionati a esperti o agenzie lautamente remunerati, ci si mette la mano nei capelli per la sequenza di banalità che contengono e per la casistica minuziosa che, alla maniera dei vecchi gesuiti, vorrebbe imbrigliare la realtà che per principio non lo è. Essi, d’altronde, sarebbero facilmente sintetizzabili nel comandamento biblico di “non rubare”, oppure, laicamente, nella massima kantiana del non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi stessi. Il riferimento a Kant non è inopportuno perché è proprio il grande pensatore tedesco che ci ha insegnato che la libertà morale dell’uomo, e quindi la sua capacità di scegliere il bene piuttosto che il male, non è codificabile dipendendo dalla circostanze o dalle situazioni di fatto: non esiste il bene ma la volontà buona, egli diceva.
All’errore teorico, nel “regolista” si aggiunge poi spesso quell’idea pratica di tutto voler controllare e pianificare che è l’opposto del liberalismo e che ha oggi successo non solo a sinistra, ma in genere nella nostra società spesso dimentica del valore della libertà. Ritornando alla Schlein, molto probabilmente tutti questi motivi sono presenti, in varia misura, nella sua presa di posizione a favore dei codici etici. Ma essi sono sovrastati, a mio avviso, da un motivo ulteriore: la volontà di dimostrare che è in grado di fare qualcosa, mentre in realtà è prigioniera di chi nel suo partito non glielo farà mai fare.