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Unifil in Libano, riportiamo a casa i soldati italiani

Daniele Capezzone
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Se è vero (e da queste parti pensiamo che sia vero) che l’analisi razionale è sempre preferibile rispetto al pensiero magico e alla superstizione, anche l’esigenza di stilare un onesto bilancio della missione Uni fil andrebbe affidata ai fatti e alla logica, non alle reazioni emotive.

E invece - a sinistra, ma purtroppo pure a destra - da qualche giorno la politica italiana pare prigioniera di risposte istintive, nervose, orgogliose, più di pancia che di testa.
Dicono quasi tutti: non ce ne andremo dal Libano solo perché ce lo chiede Netanyahu. Il quale - come abbiamo scritto in questi giorni - ci mette del suo e non sembra affatto interessato a costruire consenso internazionale intorno alle sue scelte: il che è oggettivamente un problema non piccolo, va riconosciuto.

 

 

 

Ma poi - al di là del carattere ispido del premier israeliano- ci sono i fatti a essere maledettamente cocciuti, invincibilmente testardi. Riassumiamoli con una serie di elementari domande e risposte. È riuscita la missione Onu a disarmare Hezbollah? No. È riuscita almeno a evitare che i terroristi islamici accumulassero armi e munizioni? No. È riuscita a evitare il lancio di razzi e missili contro i civili israeliani? No. È riuscita a monitorare la situazione affinché non peggiorasse ulteriormente?
Macché: a 100-200-300 metri dalle basi Onu, Hezbollah ha continuato allegramente a scavare tunnel, a organizzare bunker, a stipare armi di tutti i tipi. Non solo. Le regole d’ingaggio sono tali da salvaguardare la sicurezza dei soldati impegnati nella missione? Nemmeno per idea: quei soldati sono - senza alcuna colpa - ridotti alla condizione di belle statuine, anzi di inevitabili bersagli.

Anche perché pure i bambini hanno capito che Israele non scherza più: non tollera nemmeno l’idea, un anno dopo il 7 ottobre, che non lontano dai suoi confini ci siano ancora gruppi terroristici pronti a colpire. E su questo Gerusalemme non ha solo ragione: ha ragione da vendere. Ed è arrivata alla logica conclusione di volersi e doversi difendere da sola. Visto che l’Onu non si è accorta che anche suoi uomini (nell’ambito della famigerata Unrwa) partecipavano all’azione criminosa del 7 ottobre. Che sempre l’Onu non si è accorta di come non pochi insegnanti reclutati da quell’organizzazione fossero spesso (e siano tuttora) seminatori di odio.

Che ancora l’Onu non si è accorta di come gli aiuti umanitari siano a loro volta preda dei gruppi del terrore islamista. E per di più - a partire dalle sparate dell’ineffabile Guterres- la stessa retorica, le stesse parole dei capi delle Nazioni Unite tendono a parificare da un lato uno Stato democratico e dall’altro un manipolo di terroristi: anzi, a trattare Gerusalemme peggio di Hamas ed Hezbollah.

 

 

 

E allora cosa resta da fare? Razionalità impone di trarre una sola conclusione: l’unico modo per evitare che accada l’irreparabile (e cioè che un soldato italiano perda la vita) è riportare a casa i nostri uomini. Non si tratta, come purtroppo accade un po’ da tutte le parti, di urlare contro Netanyahu, ma di ragionare freddamente su cosa sta facendo Gerusalemme (vuole semplicemente fare piazza pulita dei terroristi: il che è perfettamente logico) e su cosa conviene a noi (evitare di mettere a rischio la vita dei nostri uomini in una missione insensata). Nel nostro Consiglio dei Ministri, a partire da una premier che qui notoriamente stimiamo e apprezziamo, siedono persone razionali e lungimiranti: vale la pena di sfidare la sorte? È saggio sperare nello stellone italiano in una fase in cui inevitabilmente la tensione è destinata a salire?

Perfino Joe Biden (ed è tutto dire) ha capito l’aria che tira: Washington ha deciso di rifornire Gerusalemme di ulteriori sistemi di difesa e si guarda bene dall’equiparare le parti in campo, come se si potesse colpevolizzare una democrazia che punta a difendersi dalle squadracce del terrore islamista, o peggio confonderla con queste ultime. E allora si prenda la decisione più saggia, disponendo il ritorno a casa dei nostri soldati. Non solo: l’esperienza suggerisce di non dire cose pericolosamente simili agli slogan di Elly Schlein e Romano Prodi, o in passato di Massimo D’Alema. Da quelle parti c’è stata e c’è ancora ambiguità: per un centrodestra conservatore, liberale, atlantista e pro Occidente, è dunque misura di igiene politica e culturale tenersi alla larga dagli argomenti e dai toni di una sinistra che ha sempre faticato a collocarsi strutturalmente nel quadrante geopolitico giusto. 

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