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Giuseppe Valditara, l'opposizione perde la testa: diffamazioni e istigazioni alla violenza

Corrado Ocone
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L’altro giorno alla Buchmesse di Francoforte Alessandro Giuli ha tenuto un discorso tutto improntato alla “libertà di espressione di ogni forma di dissenso, compreso quello che possa rivolgersi contro il governo”. Per tutta risposta, lo scrittore Antonio Scurati non ha trovato di meglio che ribattere, testualmente, che non gli interessava ciò che pensa o dice il ministro. Che erano suppergiù le stesse parole che usavano i fascisti verso i loro avversari politici durante il ventennio (non tutti: basti pensare al caso di Gentile che, in piena dittatura, concepisce l’Enciclopedia Italiana e vi chiama a collaborare intellettuali di ogni estrazione e non pochi ebrei). Un caso isolato quello di Scurati? Niente affatto. L’esempio più clamoroso di questa incapacità di dialogo, che si fa nel suo caso insulto e istigazione all’odio, è quello di Christian Raimo, l’insegnante attivista che ha messo su una rete di suoi difensori per giustificare le sue frasi incendiarie contro Giuseppe Valditara, il ministro dell’Istruzione e del Merito.

Sia beninteso i provvedimenti di un ministro possono essere criticati anche aspramente, preferibilmente con solidi argomenti. È la democrazia! Ma passare all’invettiva e alla calunnia personale, nei suoi confronti e nei confronti di esponenti del centrodestra, denota da una parte un’idea intollerante del vivere civile e dall’altra è quanto meno poco consona a chi per professione dovrebbe essere da esempio per i più giovani. «Sappi – ha detto in una delle sue tante uscite Raimo rivolto a Valditara- che io a scuola insegno solo storia militare per formare le truppe scelte che vi verranno ad assediare?». E ancora: «I neonazisti vanno picchiati, io insegno a scuola e penso sia giusto picchiarli». Può mai un insegnante usare queste parole e pretendere pure l’impunità? Eppure, sempre alla Buchmesse, un altro scrittore affermato, Paolo Giordano, ha preso le sue difese e, parlando senza tema del ridicolo del “fascismo” oggi al potere in Italia, ha affermato che Raimo avrebbe ricevuto provvedimenti disciplinari ingiustificati per aver rivolto critiche al ministro Valditara. Ora, a parte il fatto che i provvedimenti sono allo studio di una commissione burocratica indipendente dal ministro, essi non hanno nulla a che fare con la libertà di espressione e sono riconducibili ad un semplice codice di autotutela che un’istituzione deve darsi, soprattutto se è chiamata come la scuola a formare gli adolescenti. È lecito tollerare così indebite pressioni verso i tecnici che devono giudicare? E come fanno poi Giordano e i suoi amici a non accorgersi che è proprio questo rosso il vero e unico “fascismo” presente oggi in Italia? Come possono pensare che inneggiare alla violenza politica, come dei Sorel redivivi, possa accreditarli verso un’opinione pubblica democratica? Perché succede tutto questo, come si spiega? I lettori mi scuseranno se faccio un discorso fra il teorico e lo storico, riferendomi ad Hannah Arendt.

 

 

La politica, per la filosofa tedesca, che ne ritrovava le origini nella polis greca, è fondata su due elementi: l’azione libera, e quindi imprevedibile, e il logos, cioè l’argomentazione razionale pubblica. $ per questo che il Novecento, il secolo ove la politica ha preteso di dettare i comportamenti ai singoli e ove il mito e la violenza politica hanno preso il sopravvento sul discorso argomentato, non è stato per lei il secolo della politica, come pure potrebbe sembrare, ma quello della sua negazione. Purtroppo echi del Novecento permangono ancora vistosi in pieno ventunesimo secolo, soprattutto nel nostro Paese, che, come è noto, ha sempre avuto, soprattutto nelle sue classi intellettuali, poca familiarità col liberalismo. D’altronde, siamo il Paese che si è inventato il fascismo, prima, e ha visto affermarsi il più grande partito comunista dell’Occidente, poi: due movimenti illiberali e sostanzialmente intolleranti delle opinioni avverse. Se però la prima cultura è stata opportunamente storicizzata e superata dagli eventi storici, non così può dirsi della seconda. Certi stilemi di pensiero, una certa concezione della lotta politica, una intolleranza di fondo, permangono in molti intellettuali di sinistra, eredi, almeno idealmente, della cultura comunista. Lungi dal contestare legittimamente gli avversari con il discorso, cioè con la forza degli argomenti, essi intendono rompere alla radice ogni dialogo con l’altro, ridotto a nemico metafisico, cioè delegittimato moralmente prima ancora che contestato politicamente. Non ne riconoscono la dignità umana, riducendolo quasi ad essere sub-umano. Se però nel discorso pubblico più non distinguiamo le idee dalle persone, come ci suggerisce la migliore tradizione liberale, ci incamminiamo inevitabilmente verso il baratro: la “guerra civile” da culturale potrebbe diventare in men che non si dica politica. Almeno gli uomini di cultura dovrebbero tener sempre ben fermo questo principio.

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