Se non ci fosse, con i suoi 86 anni ben portati, con le sue sorprese, i suoi spiazzamenti, le sue contraddizioni, i suoi buonumori e malumori, che possono portarlo a gesti anche sgradevoli come quelle mani finite tra i capelli di una cronista troppo curiosa o irreverente, Romano Prodi dovremmo inventarcelo per non rendere monotone le nostre cronache politiche. E persino le analisi, quando ci avventuriamo a farne per capire, per esempio, come possa essere capitato proprio a Prodi di vincere due volte le elezioni contro Silvio Berlusconi, come ricordano nei salotti televisivi che lo ospitano, ma di non essere mai durato all’incirca più di un anno mezzo, sui cinque di una legislatura, quando gli è toccato di governare da Palazzo Chigi, una volta trascinandosi appresso nella caduta le Camere. Peggio di una seduta spiritica, di cui pure egli fu partecipe ai tempi del sequestro di Aldo Moro scampando all’arresto, cui chiunque sarebbe incorso al suo posto raccontando di avere appreso dallo spirito di La Pira il nome di una località chiave - Gradoli - di quella drammatica vicenda cominciata con il sequestro dell’allora presidente della Dc, fra il sangue della sua scorta, e conclusa dopo 55 giorni col suo assassinio.
L’ultima, o penultima, dell’ex premier fondatore prima dell’Ulivo e poi dell’Unione, è una specie di sfida lanciata a Gorgia Meloni a riscattarsi dalla figura da lui stesso assegnatagli di obbediente al presidente americano Donald Trump con la decisione di chiedere, quanto meno, la restituzione all’Italia di quelle mille tonnellate e più d’oro custodite da troppo tempo nel forziere statunitense di Fort Knox. Quella di riprendersi l’oro italiano custodito in America non è neppure un’idea originale, a dire il vero, essendo stata sostenuta dalle opposizioni di turno, anche dalla Meloni prima di arrivare alla guida del governo, come ha tenuto a ricordare il Corriere della Sera in una cronaca della sortita di Prodi. Ma è un inedito, nel caso dell’ex premier di centrosinistra, con la motivazione un po’ sovranista, o nazionalista, di una prova di autonomia, di affrancamento da un alleato diventato troppo oneroso o inaffidabile.
Anche a costo di non avere nei forzieri della Banca d’Italia lo spazio per sistemare i lingotti soprapponendoli o accostandoli alle mille tonnellate e cento già presenti. Per farne poi cosa?, verrebbe da chiedere a Prodi nella sua veste di economista. O di ex contrariato anche dal silenzio in cui cadono i suoi consigli e lamenti, pur giustificati, nel partito di cui la segretaria attuale voleva occupare sedi e sezioni per vendicare proprio lui, trafitto in una corsa al Quirinale dai soliti, immancabili “franchi tiratori” nominalmente amici. Consigli o lamenti, o moniti, per la mancanza, per esempio, di un minimo di programma che renda visibile e realistico un progetto di alternativa al centrodestra.
Prodi “esagera”, si è lasciato scappare di recente il più paziente o sornione Pier Luigi Bersani, che peraltro da segretario del Pd fu il regista e gestore della sua improvvisa e sfortunata candidatura alla Presidenza della Repubblica nel 2013, alla scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano, e dopo il fallimento della prima candidatura del Pd alla successione: quella del presidente dello stesso Pd Franco Marini, condivisa anche da buona parte, se non tutto il centrodestra. Che ne ricordava e apprezzava la passata militanza democristiana, fra le correnti di Carlo Donat-Cattin e di Giulio Andreotti, dopo la morte del leader della sinistra sociale dello scudo crociato. Non vorrei che a fare la guardia all’oro ricomposto della Banca d’Italia finisse, tra scherzo e realtà, uno come il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, impegnato con i suoi scioperi generali di venerdì a preparare una “festosa” rivoluzione sociale, direbbe forse Achille Occhetto con l’esperienza fallita della sua “gioiosa macchina da guerra” allestita nel 1994 contro quell’imprevisto guastafeste di Silvio Berlusconi.