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Arrigo Sacchi in campo col vivaio del Milan: la sua partita più difficile

Andrea Tempestini
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L'introduzione a firma Adriano Galliani ha tutti i crismi per accendere nei cuori rossoneri quella scintilla di entusiasmo, quel pizzico di romanticismo e voglia di tornare al top che già la promozione di Pippo Inzaghi a mister del Milan “grandi” aveva scatenato. Poi il campo ha un po' raffreddato quello che le scrivanie avevano progettato, è per questo che il ritorno di Arrigo Sacchi in casa del Diavolo non va inteso come un déjà vu ma come una ripartenza. Ieri a Milanello, l'ad rossonero, con un parallelismo efficace, ha ricordato la situazione complicata del Milan nel 1987, quando Berlusconi affidò le chiavi tecniche del club allo stesso Sacchi: nel giro di un anno, da un deprimente quinto posto si passò allo scudetto capofila di una nuova era di successi. Tutto questo per introdurre la nuova avventura di Sacchi: sarà consulente del vivaio rossonero, dalla Primavera ai Pulcini 2005, nel meeting di ieri ha incontrato gli staff tecnici del settore giovanile, il responsabile Filippo Galli e lo stesso Inzaghi. Con loro si è confrontato su approccio, metodologie, organizzazione e ri-organizzazione. A Milan Channel, Arrigo ha raccontato: «Quando io presi Rijkaard lo prendemmo perché la mia idea era di iniziare il mio gioco da dietro. Dovetti toglierlo, perché era fortissimo individualmente. Ma il suo riferimento principale era l'avversario. Per una squadra che fa pressing il riferimento principale è il compagno, poi l'avversario e il pallone. Se l'avversario ti porta dove vuole lui, non si fa reparto e se non si fa reparto non si fa squadra. I concetti di gioco sono gli stessi indipendente dal modulo: il sistema di gioco lo cambi in base ai giocatori». Ora, gli interrogativi non mancano, al di là del fatto che soltanto a fine luglio Sacchi ha lasciato la guida del settore giovanile azzurro «a causa dello stress». Evidentemente la passione e la prospettiva di un ruolo preminente ma non vorace di energie psicofisiche lo hanno convinto a rimettersi in pista. Piuttosto, Arrigo profeta di abnegazione tattica e maniacale analisi delle dinamiche di gioco, sarà la persona giusta per allevare ed esaltare i talenti in erba, spesso non pronti a recepire e digerire gli ordini via lavagnetta? «La tecnica fine a se stessa non basta», sostiene il Vate di Fusignano, dunque farà da padrona la tattica su quella padronanza di palleggio e confidenza con lo strumento di cui invece in serie A pare esserci un drammatico bisogno? E poi c'è la sfida culturale. Giustamente, da molto tempo Arrigo denuncia che «il calcio giovanile in Italia è una miniera d'oro, ma ancora non abbiamo compreso come valorizzare i talenti: da noi importa vincere con furbizia e arte di arrangiarsi. È per questo che non si va avanti, non è una questione di soldi». Affermazioni chiare e precise, che cozzano con la realtà di moltissimi settori giovanili dei grandi club italiani, spesso invasi da “Optì Pobà” dall'età indefinita, schierati in campo contro ragazzini palesemente più piccoli pur appartenendo alla stessa “categoria”: il tutto perché sono gli stessi club a perseguire ogni mezzo per vincere anche a livello di vivaio. Poi, una volta cresciuti, dopo un intero settore giovanile passato a dominare i pari età (ma spesso solo sulla carta) i presunti fenomeni falliscono il passaggio al calcio che conta perché non abituati a giocare con i “grandi”. A loro Arrigo vorrà spiegare per prima cosa che non “conta solo vincere”, perché «una vittoria senza merito non è una vittoria». Lo capiranno? di Tommaso Lorenzini

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