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Birra analcolica? Non proprio, ecco come ti fregano: occhio all'etichetta

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In un breve articolo riportato da ilfattoalimentare.it, emerge come alcune birre vengano spacciate come "analcoliche", mentre in realtà, seppur in basse percentuali, contengono tracce di alcol. Tutto merito della segnalazione di una lettrice: "Mi sono imbattuta in alcune marche che secondo me ingannano i clienti", scrive una consumatrice. "Molte birre infatti presentano tracce di alcol, con contenuti pari a 0.5%, 0.3% però sulla confezione è scritto con un carattere grande e grosso 'analcolica', mentre l'indicazione che contiene alcol è scritta così piccola che se non leggi con attenzione nemmeno te ne accorgi". 

 

 

"La gradazione non è altissima - prosegue -. Ma è comunque dannosa nel caso di una donna incinta o di una persona alcolizzata che si sta disintossicando". Secondo quanto emerge dalla normativa, le case produttrice non sarebbero colpevoli di alcuna infrazione, visto che l'articolo 2 (così sostituito dall'arti. 1 del D.P.R. 30.06.1998 n° 272) consente tale "trucchetto". La denominazione di "birra analcolica" - recita l'articolo -. È riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%. 

 

 

Le etichette e le scritte impresse sopra le confezioni e le bottiglie possono quindi spesso trarre in inganno i consumatori. È consigliato leggere con molta cura anche (e soprattutto) le scritte più piccole sul retro della confezione per appurare se una birra è effettivamente priva di alcol, o comunque contiene una quantità minima consentita dalla legge. Utile ribadire che il limite massimo di titolo alcolometrico volumico non deve superare la soglia di 1,2%. 

 

 

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