Angurie e meloni lasciati marcire: la scelta estrema dei coltivatori

di Attilio Barbierilunedì 28 luglio 2025
Angurie e meloni lasciati marcire: la scelta estrema dei coltivatori
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Accade una cosa singolare nelle campagne pugliesi. Gli agricoltori stanno lasciando marcire nei campi tonnellate di angurie e meloni. Non per protesta, non per sciopero. Semplicemente perché raccoglierli costa più di quanto possano rendere loro. Non è una novità, purtroppo. Nell’ultimo decennio è già accaduto per pesche, nettarine e albicocche. Ma il caso delle cucurbitacee pugliesi è emblematico di come questi fenomeni si possano moltiplicare all’infinito. Mettendo in ginocchio i produttori di varietà molto diverse fra loro.

La forbice dei prezzi dal campo alla tavola tende ad ampliarsi, fino a schiacciare i coltivatori. Un'anguria viene pagata al produttore anche nove centesimi al chilogrammo. La stessa anguria, qualche giorno dopo, si trova nei supermercati aun euro e cinquanta. Il coefficiente di moltiplicazione è di diciassette volte. Ancora più stridente il caso dei meloni gialli di Brindisi: trenta centesimi al campo, tre euro sullo scaffale. Mille per cento di ricarico.

CAMPAGNA ESTIVA
Coldiretti Puglia ha diffuso in questi giorni dati della campagna estiva. Le angurie quotano 9-10 centesimi al chilogrammo. I meloni gialli brindisini sono scesi a 30 centesimi. «Agli agricoltori non conviene neppure raccoglierli», dice la nota ufficiale, «li stanno trinciando e interrando». Il fenomeno ha dimensioni macroscopiche. Nella provincia di Brindisi si vedono distese di angurie che si spaccano al sole. I trattori le seppelliscono come rifiuti organici. Il paradosso è che il mercato, contemporaneamente, funziona regolarmente. I supermercati vendono angurie e meloni ai soliti prezzi. Una rilevazione sui discount del nord Italia registra angurie a 0,69-1,99 euro al chilogrammo e meloni a 1,99-2,99 euro. Nei supermercati tradizionali si arriva fino a 3,49 euro per i meloni.

Ma dove vanno a finire quei soldi? La differenza tra nove centesimi e un euro e mezzo non evapora. Qualcuno la incassa. La denuncia di Coldiretti parla chiaramente di «speculazioni nella distribuzione del valore dal campo alla tavola». La situazione si aggrava con l'importazione di prodotti nordafricani e turchi. È accaduto con le ciliegie, si ripete con i meloni. «Ortofrutta spesso spacciata per pugliese», denuncia ancora la Coldiretti. La fregatura è doppia: sui prezzi e sull’origine.

I fattori sono molteplici. La siccità ha ridotto le quantità prodotte e il gran caldo delle scorse settimaneha portato a maturazione i frutti tutti assieme. Contemporaneamente i costi di produzione sono aumentati. Ma soprattutto è calata la domanda. «Mentre con il caldo la frutta deperisce più rapidamente», spiega il bollettino de La Borsa della Spesa, «durante le ferie la domanda diminuisce».

Il meccanismo è perverso. Meno domanda significa prezzi più bassi per il produttore, ma nonnecessariamente per il consumatore. Gli intermediari mantengono i loro margini. Il risultato è che chi produce non guadagna e chi compra non risparmia un centesimo.

MELONI MANTOVANI
Se in Puglia gli agricoltori soffrono, al Settentrione la situazione cambia, soprattutto per le varietà di cucurbitacee estive più pregiate. Nel triangolo d’oro fra Mantova, Cremona e Bologna, al campo i meloni retati si pagano anche 1 euro al chilo. Il Melone Mantovano Igp raggiunge facilmente un euro e mezzo. «Ma sono i prezzi giusti per garantirsi un minimo di margine», confessa un grande produttore mantovano. «Se vendi un melone retato a 30 centesimi al chilo ci rimetti dei gran soldi. E non può diventare la regola, altrimenti non copri i costi e sei costretto a chiudere l’azienda agricola».

È un cortocircuito del sistema che ha qualcosa di surreale. Icontadini spendono più per raccoglierei frutti di quanto incassino dalla vendita. Mentre i consumatori pagano prezzi tendenzialmente crescenti. Dal campo alla tavola la forbice dei rincari può arrivare addirittura al 1.400% e gonfia inevitabilmente il costo del carrello della spesa che continua a crescere più dell’inflazione generale.

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