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Mauro Ferrucci, gloria house italiana: "Ho conquistato il mondo col remix di King of my castle, ma oggi a Sanremo ci vanno Elettra Lamborghini e Achille Lauro"

Leonardo Filomeno
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Di ogni epoca e pista ha sempre colto spirito e anima. Qualche volta anticipando i tempi, spesso centrando gli obiettivi prefissi. La New Wave, la prima House Music, il battessimo del Fitzcarraldo, il Villa delle Rose, il Paradiso e il Pineta, la decennale residenza al Blue Marlin di Ibiza. Mauro Ferrucci è un italiano conosciuto in tutta Europa. Dj e produttore di gran fiuto, si è inventato Airplane! Records e il team T&F vs Moltosugo. Poi Nikita Warren e Tommy Vee, Moony e i DB Boulevard. Soprattutto, un remix di King Of My Castle di Wamdue Project che è nella storia. Adesso ecco i suoi Plaster Hands, nel 2019 tra i progetti house più sotto i riflettori. Per l'estate 2020 tornano con una bomba house piena di stile come Follow Me, cantata dalla leggendaria Barbara Tucker. E torna pure l'intramontabile Dove di Moony, in una veste 'aggiornata' per le nuove generazioni. A buon ragione si sfoga di un'Italia musicalmente 'andata'. E rincara: "C'è chi dice: 'Achille Lauro è un personaggio'. Certo, basta non dici che sia un cantante".

Anche la Lamborghini dovrebbe cantare sotto la doccia e basta? 
"Vederla sulle tv musicali o a Sanremo, solo perché erede di un brand e con 5 milioni di seguaci su Instagram, non la rende una cantante vera. Personaggi così tolgono possibilità a chi il talento davvero lo possiede. Quanto ai dj, è giusto che ci sia il Vacchi della situazione, mettiamolo però nella categoria 'celebrity'. Come fai a confrontarlo con Ralf? Non ha senso. Solo dove non puoi inventarti artefatti, non esistono infiltrazioni. Nello sport, infatti, non vai a fare le olimpiadi perché hai 5 milioni di seguaci".   
Della tua categoria, chi proprio non sopporti? 
"I dj escort, che si fanno pagare da un ricco milionario annoiato, dando credibilità a un dj che tale non è. L'apripista ad un 'celebrity' lo fai a fine carriera, quando non hai più nulla da dire. Sono dj che hanno svenduto la loro professionalità per cercare attenzione o un palco che l'altro compra".
Su certi fenomeni le etichette ci marciano alla grande. 
"Esce il pezzo, ma non succede un caz***. Gli a&r delle case discografiche sfruttano chi ha 3 milioni di visite su Youtube nonostante faccia vedere la droga nei barattoli. Non devono vendere realmente, altrimenti non avrebbero i dischi d'oro attaccati alle pareti, visto che quei numeri sono relativi allo streaming. Un capo a&r di una major, negli anni '90, guadagnava 250 milioni l'anno. Oggi beccano 3000 euro al mese, se va bene. Questo fa capire tante cose sulla bontà delle loro scelte". 
Le ultime generazioni non hanno riferimenti veri. 
"I 20 nomi che firmano come autori sono sempre gli stessi, ognuno butta dentro un frame. Abbiamo puzzle, non più canzoni. Su TikTok trovi le solite tracce imposte, mai un pezzo underground verrà lanciato da un social del genere. Questi generazioni verranno su catatoniche. La colpa però non è mai dei giovani, bensì di chi dà spazio a questi non-artisti".
La percezione prima di tutto, poi il resto. 
"E' un meccanismo vecchio. Martha Wash interpretava Ride On Time dei Black Box e l'immagine era quella di una bella donna, ma alla base c'erano una grande voce ed una bella canzone. Anche all'epoca si tenevano in considerazione cose diverse dalla musica, però non prescindevano da essa. Adesso molti riescono avere una parvenza di successo perché un frame di 15 secondi gira su TikTok grazie ad una sequenza di suoni curiosa. Non importa a nessuno che quegli streaming li faccia uno che cantante non è". 
Da tempo i grossi network hanno abdicato ad un ruolo educativo. Spotify ha più senso. 
"Abbiamo canzoni passate in fotocopia da tutti perché siamo degli invertebrati, dei buonisti. Le radio commerciali mai hanno aiutato una produzione house ad avere successo. Nessuno dei miei dischi è diventato famoso grazie ad essi. Proprio come TikTok, i grossi network si rivolgeranno sempre alla massa, che è affascinata dalle tamarrate. In fondo è giusto che certe radio passino il Despacito e non la mia Gipsy con i Plaster Hands". 
L'appeal di Gipsy è ben diverso da quello che poteva avere Dove di Moony. 
"Prima che Dove diventasse la sigla del Festivalbar quasi nessuno la supportava. Ci arrivarono dopo il primo posto in Inghilterra e una ventina di passaggi di Pete Tong. L'unica speranza, per noi produttori, sarebbe l'applicazione di una norma francese, dove sei obbligato a programmare il 75% di dischi in qualsiasi lingua, ma di produttori locali. Questa norma spiega perché certi dj francesi, pur non avendo fatto nel mondo i miei numeri, siano diventati poi così famosi".
Un mea culpa? 
"Verso la metà degli anni 2000 molti produttori italiani hanno puntato su dischi ipnotici e cupi, senza testi, e la gente si è rotta i cog***. Il primo punto di rottura c'è stato con Satisfaction di Benny Benassi, il secondo con One degli Swedish House Mafia, pezzi EDM aggressivi ed orecchiabili. Ma erano dischi da festival, col nostro mondo non c'entravano nulla. E' in quel momento che noi produttori house abbiamo perso la partita. Per 10 anni siamo scomparsi e la house è diventata iper nicchia". 
Prima di quel momento certa house era diventata molto "radiofonica". 
"Certo, facevamo pop. Dove e Point of view lo erano. Todd Terry non poteva suonarle, perché erano squadrate ritmicamente. Anche Free di Ultra Natè o Horny di Mousse T erano pop. Fare il 'salto' non ti permette di definirti più house, perché essa resta underground, il termine 'casa' indica una cosa intima. Quando decidi di diventare 'altro', è inevitabile. Prendi Defected: s'è tolta il fardello dell'underground, è diventata un'etichetta commerciale. E fa uscire Pump It Up. Se l'avessi detto 10 anni fa, mi avrebbero dato del matto".
Troppi scienziati in cattedra? 
"C'eravamo troppo allontanati dall'intento di far divertire, suonavamo musica a prescindere, da questo errore è nata l'EDM. Le disco non sono università della musica. La presunzione ci ha fatto male. Solo adesso stiamo venendo fuori da questo incubo. L'EDM è stata un lampo. Sono tornate finalmente le cose più solide. Come la house, che è rimasta coerente. Senz'altro dobbiamo noi dj indicare una strada al pubblico, ai giovani soprattutto. Tutti dicono: "La gente vuole il reggaeton". Sbagliato, sei tu a proporglielo. Il pubblico non decide la trama di un film. Vede e poi sceglie".
Come nacque il tuo remix di King Of My Castle di Wamdue Project?
"King Of My Castle fu dato in licenza all'etichetta Strictly Rhythm da Cris Brem, un ragazzo di Atlanta, a mio avviso un genio. Era un brano lounge, genere verso la fine degli anni '90 molto in voga in Europa, che invano stavano cercando di lanciare in America. L'operazione fu un fiasco, il disco che lo conteneva vendette 333 copie nel mondo. Un giorno, nei loro uffici, me ne parlarono, e mi diedero le singole parti di King Of My Castle, pensando potessi tirar fuori qualcosa. Le voci erano inutilizzabili, avevano dei drop. Così lo feci ricantare da Lucrezia, una cantante di Bologna che lavorava con me all'epoca. La Strictly mai utilizzò quel cantato, perché riteneva fosse inadeguato, la base però sì. Da quella decisione partì una diatriba che, da lì a pochi anni, coincise con il fallimento della Strictly stessa. Ad ogni modo, il pezzo originale non lo conosce nessuno. Con 18 milioni e mezzo di copie vendute, il remix che tutti conoscono è quello che ho firmato come Roy Malone".
Dopo 18 anni, riecco Dove.
"Uscirà per l'estate una nostra nuova versione e ci sarà pure un remix di Claptone. A livello sonoro, ci si sta avvicinando molto a quel nostro disco del 2002. Basta ascoltare certe cose di Dua Lipa per notare che, fatto il giro, si torna al punto di partenza. Quello che abbiamo realizzato sarà un upgrade bello ed attuale. Toccare delle hit è difficile, ma è stato talmente naturale che quando la senti pensi: 'Caz***, sembra nuova, ma la conosco già'. Non tanto per un fattore economico quanto di gusto, spero di centrare l'obiettivo. Ed allontanare certi stereotipi un po' sempliciotti che hanno infestato i dischi odierni". 
Cosa ricordi di quel successo così grosso? 
"Per Lifestories, l'album d'esordio di Moony, rifiutai l'offerta di una società che mai aveva avuto un cantante in scuderia. Roba da 6 al Superenalotto, chissà quante generazioni avrei sistemato. Dopo una notte insonne, decisi per Warner, sinonimo di garanzia artistica, anche se offriva 20 volte meno. Col senno di poi, sicuramente avrei fatto meglio a firmare con quella società". 
Hai detto: "All'inizio ero disposto a pagare per fare il dj". 
"Per un milione e 200mila suonavo tutte le sere. I camerieri prendevano di più e beccavano pure le mance. Quel primo contratto in Italia lo ottenni verso la fine degli anni '80 e facevo il dj già da anni all'estero. Ero scappato per evitare il militare. Ero stato a Palma di Maiorca, a Barcellona e ad Ibiza e lavoravo più all'estero che qui. Nell'88 avevo una residenza ogni lunedì a Parigi".
Circa 700 produzioni e cos'altro? 
"Avendo lavorato tanto all'estero, è stato poi più semplice far giungere la mia musica 'a certe orecchie'. Tanti italiani, che hanno prodotto canzoni bellissime, non hanno avuto i riscontri che meritavano perché il riflettore dei grossi network è sempre stato puntato su scalette 'imposte'. Sono stato anche fortunato. Il primo successo arrivò con J.T. And The Big Family. J.T non c'è più, me l'hanno rubato (sorride, ndr). E' rimasta la 'family'. Siamo da 30 anni gli stessi, lo sanno tutti. Per questo siamo forti. Sogno un viaggio nello spazio. Vorrei guardare la terra dall'alto. Non ci andrò mai, lo so. Mi faccio bastare ciò che ho fatto, che non è poco".

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