Cerca
Logo
Cerca
+

Alessandro Staderini, 30 anni di Jestofunk: "Era il Rinascimento house, Oggi? Ipnosi mentale"

Leonardo Filomeno
  • a
  • a
  • a

Nel mostrare le carte decisive qualche volta il destino è impaziente. “A 6 anni compravo i Colussi perché regalavano un 45 giri. A 9 trovai sotto l’albero un Montarbo e l’LP dello Zecchino d’Oro. Da quel momento ci fu sempre un vinile come premio scolastico. Quando mi fecero ascoltare ‘Sex Machine’ di James Brown la passione prese il sopravvento. Possiedo 22mila vinili, dagli anni ’40 ad oggi”. Alessandro Staderini, Blade per tutti, è un tipo alla mano, un toscanaccio autentico, non ci gira troppo attorno. Assieme a Francesco Farias e al leggendario Claudio Rispoli detto Moz-Art si è inventato i Jestofunk, band fautrice di una rivisitazione della disco funk nel contesto house anni ’90, “con l’apporto dei samples a rendere rivoluzionaria un’epoca”, spiega. ll loro singolo d’esordio, I’m Gonna Love You, risale al 1991 e nella house resta un cult che certo non sfigurerebbe in un odierno dj set. Can We Live o Special Love, immortali, nella loro storia restano dei punti fermi.

Dicevamo del destino, che dietro a una console ti conduce molto presto. 
“Iniziai con le feste hip hop. Durante una di queste serate, in Emilia Romagna, conobbi Farias. Era l'88, eravamo 17enni entrambi. Con la sua tastiera  inventammo un live set con tante idee interessanti. Da quelle sperimentazioni vennero fuori le armonie di I'm Gonna Love You’ La ricomposi con l’Akai 950. Utilizzavo anche l’Emulator, celebre campionatore con cui i Kraftwerk si sono inventati giusto qualche capolavoro. 3 milioni di lire. Per comprarlo mi indebitai con Findomestic. Ancora mi capita di utilizzarlo e non lo venderei per nessun motivo al mondo. All’epoca ci dicevamo: ‘Se lo fanno i M.A.R.R.S possiamo provarci pure noi”.
Due anni dopo l’incontro con Moz-Art, iniziatore della afro negli anni ’70. 
“Ci conoscemmo in uno studio di registrazione, mentre stava producendo il progetto Omniverse. Ci avvicinò la passione per la funky e per la fusion, che grazie a lui ho approfondito. Rimase sorpreso dai nostri demo, un incrocio tra funk e disco, in stile Luther Vandross. Per essere due pischielli, era un grande risultato. Il sax del compianto Maurizio Caldura, su I'm Gonna Love You, arrivò dopo. Il nostro primo album Love In A Black Dimension uscì in un periodo di grande fermento. C’erano De La Soul, Jamiroquai, Incognito, Galliano. La musica viveva una sorta di Rinascimento.
CeCe Rogers e i dubbi sulla house degli italiani. 
“Per lui facevamo tutti Italo House, era un modo per etichettarci, in negativo. Quella convinzione svanì quando David Morales gli fece ascoltare I’m Gonna Love You. Prestò la sua voce in Say It Again. Can We Live era all’inizio una canzone normale. Quella nota tenuta si trovava in realtà in fondo ai 7 minuti della acapella di CeCe, registrata su bobina. ‘L’hai sentita anche tu’, chiesi a Farias. Disse di sì. Fu come un meteorite, quelle cose che passano una volta solamente, e non puoi lasciartele scappare. Andammo a ricercarla nella registrazione, la campionammo e divenne la bandiera del pezzo. Il master lo facemmo a Londra”.
Il compianto Frankie Knuckles tra i fan della prima ora. 
“Quando Mauro Ferrucci mise la dub, rigorosamente su promo, al Fitzcarraldo venne giù il mondo. Le prime copie le consegnammo a Ralf e, personalmente, a Dimitri From Paris. I fax che arrivavano da mezza Europa erano entusiasti. C’era un solo problema”.
Cosa mettere dopo… 
“Non lo mixavi, dovevi avere qualcosa di ancora più forte da far partire sul finale. L’unica cosa che non mi piaceva, e che accomuna tanta house italiana anni ’90, era la cassa. Ci accontentavamo perché, usando il vinile, riuscivamo ad equalizzare. Risentita oggi, direi che lascia molto a desiderare (sorride, ndr)”.
Special Love è l’altro pezzo che marca il gruppo. 
“La cantante americana Jocelyn Brown chiese un testo, che ovviamente non avevamo. Nel mio portafogli conservavo un pezzetto di carta con una poesia scritta da una fidanzata inglese che mi aveva mollato. Jocelyn cambiò due o tre cose di quella poesia e le venne fuori quel ‘A special love, Oh a special love'. Mi disse che quella ragazza possedeva un feeling speciale con le parole e avrebbe dovuto coltivare il dono della scrittura in ambito musicale. Il primo remix lo commissionammo a Joey Negro e fu un palo, non piaceva a nessuno. Steve ‘Silk’ Hurley, quello di Jack Your Body e The Word Is Love, remixò Special Love. Era carico, aveva ritrovato la libertà, la sua versione ‘respirava’. Lo senti ancora oggi. E’ sempre un po’ a fortuna, con i remix: Negro o anche Bob Sinclar, che poi avrebbe messo le mani sulla nostra Happy, avevano la pancia piena, e le loro versioni non ci portarono nulla. Hurley invece ci consegnò una versione che ha fatto epoca”.
Prima hai parlato di Rinascimento, non a caso. 
“Qualcosa cambia quando la gente non ha più fede in una determinata chiesa. All’epoca si era rotta i coglioni degli anni ’80, di quelle batterie un po’ troppo frivolette, in stile Trio, di produzioni schematiche. Oggi viviamo in un’ipnosi mentale, in Europa siamo molto sacrificati. La gente ha troppi pensieri per la testa e la creatività è andata a farsi benedire. I produttori non sanno cosa siano un do, un re. Non lo so manco io. Però lo sento, ho orecchio, ho il mio colore funk e la musica la capisco. Il business adesso lo fai col singolo in cui c’è il ragazzetto di 20 anni, seguitissimo sui social, che come un idiota canta: ‘Oh no Oh no, no no no’. Anche far ricantare le hit di un tempo è una conseguenza dei tempi che viviamo. Un esempio: Fedez che ripesca Children e ne fa una versione terrificante. Anche a me giungono proposte del tipo: ‘Hai un pezzo forte? Lo facciamo cantare a questi big, che hanno seguaci ma non sono in grado di creare nulla’. In questo ‘sistema’, radio e major ti spingono comunque, anche se musicalmente sei un cane. Tutti, in un modo o nell'altro, alimentiamo questo scempio, da cui i nuovi Morcheeba, Zero 7 o Incognito mai emergeranno”.
Purple Disco Machine però piace e colma un vuoto. 
“E’ un ibrido tra funk e disco. Fa le cose che un tempo facevano Cerrone e Giorgio Moroder. Fa suonare bene i pezzi, tratta con cura i classici. E’ uno che passa del tempo in studio e musicalmente fa ciò che gli pare. Su YouTube carica dei tutorial nei quali sembra che fare musica sia facile come girare una frittata, e che le melodie escano fuori naturalmente. In realtà ti sta ingannando, perché è un lavoro molto complesso. Ma ci sta, visto il seguito trasversale che si è creato, con serate in tutto il mondo”.
I nomi della rivoluzione?  
“The Beatles, Pink Floyd, Miles Davis. Nella house Frankie Knuckles e Larry Levan. Poi David Morales, I Masters At Work, Todd Terry e Tony Humphries. Tra i recenti Calvin Harris, David Guetta e Purple. I nuovi Daft Punk arriveranno. Ma non saranno sicuramente i Pinguini Tattici o Salmo (grande sorriso, ndr)”.   
Un certo revival sta diventando fighissimo, soprattutto tra i dj di un certo segmento. 
“Riproporre El Ritmo De Verdad di Légo o Pasilda degli Afro Medusa non è revival. E’ inevitabile. In quella musica un po’ di contenuto c’era. Ma non credo sia totalmente finita. Oggi il nuovo per me è Bandcamp. Trovi brani meravigliosi, frutto di follia pura. Ci sono rifacimenti di pezzi anni ’70 di una eleganza unica, realizzati con un rispetto senza pari per le originali. Lì riscopri il furore della musica. Sono il primo fan di questi nuovi produttori, la maggior parte inglesi. Dando nuova linfa al vecchio rendono meno settoriale e passivo l’attuale scenario”. 
Hai detto: “I dj che lavorano per 50 euro sono quelli che hanno rovinato il mercato”. 
“Non hanno un’idea precisa, copiano un dj set di Solomun o di Luciano in un contesto in cui magari c’entra zero. Nella vita potrebbero fare tranquillamente altro. Un tempo per accedere al djing le basi servivano. Il dj era un mestiere per il quale non si contemplavano notorietà e successo. Dovevi comprare dischi, frequentare scuole dove, se toccavi il vinile, partiva una bacchettata sulle mani da parte dei dj puristi come Mauro Coppola, Riccardo Cioni, Enzo Persueder. Una gavetta del genere sarebbe ancora fondamentale. Lo vorrei ribadire a quei fenomeni che raccontano di aver ‘visto’, e non di aver ‘ascoltato’, un dj”.
Dopo tutto questo tempo cosa sentite di aver lasciato? 
“Ci abbiamo provato in un momento in cui i mezzi per farlo non esistevano. Love In A Black Dimension resta un capolavoro. Fu prodotto con la spregiudicatezza di chi non fa nessun calcolo. Avevamo creato un cliché, erano gli altri che ci copiavano. Say It Again in Francia fu inserita in uno spot della Telecom. In Austria, dove vincemmo 2 dischi d’oro ed uno di platino, ci amano ancora. In totale abbiamo venduto oltre un milione e mezzo di copie fisiche e girato il mondo per un ventennio, togliendoci lo sfizio di suonare con Lou Reed, Kool & The Gang, Earth, Wind & Fire. Dal 1990 al 2005 abbiamo vissuto anni full optional”.
La storia dei Jestofunk ovviamente non finisce. 
“La nostra entità live coinvolge, oltre a CeCe Rogers, un gruppo di musicisti internazionali, abbiamo un taglio adulto. Il nostro stile piace sempre perché mescola il tipico sound italiano ad una irascibilità di stampo afro americano. Qualora si decidesse di fare un nuovo tour metteremmo su un calendario di 20 date in pochi giorni. All’epoca ci definivano una band acid jazz, anche se non voleva dire nulla, in quanto era in origine il nome un’etichetta discografica, non un genere musicale (sorride, ndr). A 55 anni, il mio entusiasmo è quello di sempre. Ho perso soldi, ne ho guadagnati, di ‘bischerate’ ne ho fatte in questo trentennio. Ma davanti all’esperienza con i Jestofunk posso dire che il segno ‘più’ c’è senz’altro”.

Dai blog