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Pd, il piano per far saltare la Rai: complotto anti-governo a viale Mazzini

di Francesco Specchia sabato 2 settembre 2023

4' di lettura

Ammettiamolo. L’incendio del malcontento non è mai divampato perché, finora, in Rai come in politica, le rivoluzioni non s’accendono mai durante le ferie d’agosto. Ma ora, a uffici riaperti, tornano gli attacchi alla nuova Rai trasformatasi in una buzzatiana Fortezza Bastiani. Nella parte dei tartari (che però arrivano, scalcagnati, ma arrivano), ecco l’Usigrai il leggendario sindacato interno sempre così striato di rosso antico. 

L’Usigrai è agitatissimo. Prima si produce in levate di scudi contro l’ad Roberto Sergio per Fazio e Berlinguer che se ne vanno (di loro sponte, dietro a contratti milionari); poi macina furore per la cacciata di Saviano (assieme a quella di Facci, entrambi violatori di “codice etico”, ma di Facci nessuno parla). Dopo ancora, ecco l’attacco per le nomine «politiche» alle direzioni dei tg, con la Schlein che sostiene il sindacato dissociandosi da sé stessa come in una vignetta di Altan: da un lato lottizza piazzando pedine del Pd a viale Mazzini, e dall’altro chiede la riforma della tv di Stato contro le la lottizzazione. Infine, in questi giorni di rientro, arriva il pesante j’accuse Usigrai al direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci reo di aver dato parola al generale Vannacci, con tanto di solito comunicato indignato del sindacatone.

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LA RIBELLIONE - Solo che, stavolta – per la prima volta - parte pure la risposta del cdr del primo telegiornale d’Italia: «Non accettiamo lezioni di giornalismo». Insomma, si dirada l’atmosfera storica da Politbjuro, in stile Le vite degli altri. Insomma, l’Usigrai è nel pallone. Per due motivi.

Vuoi perché si sta facendo luce su una storiaccia oscura riguardante il suo ex segretario e attuale presidente della Federaziona nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) Vittorio Di Trapani: un ammanco da centomila euro incastrato in una storiella di conti sbagliati e di mezzi revisori. E vuoi perché –come anticipa Carmelo Caruso sul Foglio- esiste la seria possibilità che «che nasca l’anti Usigrai, un sindacato nuovo, spostato sulle posizioni della destra. E si cerca un leader per questa nuova organizzazione»; e, per inciso, sarebbe lo spin off della già esistente corrente “conservatrice” Pluralismo e Libertà. Ed è per questo che l’Usigrai -nel cui spettro d’azione scivola l’immortale Beppe Giulietti- è agitatissimo.

E si prepara a rielaborare un documento possente che fu già presentato alla Commissione Europa da 15 deputati socialisti e Verdi, ma senza riscontro (era il 5 agosto scorso, ed erano, appunto, tutti già troppo in ferie). Nel documento si da’ notizia che in Italia divampa «l’emergenza democratica»: «La Commissione Europea ha appena confermato lo stato di dipendenza politica della televisione pubblica italiana Rai. La Federazione europea dei giornalisti (EFJ), insieme al sindacato dei giornalisti della Rai Usigrai e alla Federazione italiana dei giornalisti (FNSI), chiede una riforma legislativa immediata per garantire finalmente l'indipendenza della Rai». Occhio. Proseguono: «I recenti scandali sulle nomine politiche ai vertici della televisione pubblica italiana e la censura governativa che ha portato alla deprogrammazione del programma antimafia del giornalista Roberto Saviano evidenziano l’urgenza di modificare la legge per garantire la totale indipendenza della Rai e dei suoi organi direttivi».

Cioè: il tignoso Usigrai, con le principali associazioni di corrispondenti esteri in Italia –di sinistra-, denuncia il ritorno del totalitarismo a viale Mazzini. Epperò nessuno, da noi, se n’era accorto. Nessuno tranne il commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton, il quale ha dichiarato che «la Commissione è consapevole dei rischi di ingerenza politica che incidono sull’indipendenza dei media di servizio pubblico in Italia», a sostegno della denuncia del pesunto golpe meloniano. Breton fa riferimento alle clamorose conclusioni del rapporto europeo sullo stato di diritto in Italia, ma «anche ai preoccupanti risultati degli studi del Media Pluralism Monitor, che da anni denunciano la mancanza di autonomia politica e finanziaria della Rai e l’inerzia dei successivi governi per porvi fine». Ma si è dimenticato, il Breton, che «i successivi governi» erano di sinistra e l’Usigrai, allora, non faceva un plissé.

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L’ATTACCO - «La televisione pubblica italiana è trattata come la peggior televisione di Stato nei regimi più autoritari...», aveva affermato Ricardo Gutiérrez, segretario generale EFJ «la gestione della televisione pubblica non solo è sotto totale influenza politica, ma manca anche delle risorse finanziarie per compiere la sua missione». Come dire: in Rai siete corrotti e pure –si scusi il francesismo- con le pezze al culo. Ogni commento, qui, è superfluo. L’emergenza democratica sta negli occhi sinistri di chi guarda. Ma, dietro tutta questa pantomima che parte dai sindacati e attraversa i partiti del centrosinistra, be’, il piano strategico risulta meno surreale di quanto sembri. La pantomima suddetta serve per insufflare, dalle sedi internazionali, la necessità di un cambio in corsa dell’attuale legge sulla governance Rai. Ossia quella voluta, paradossalmente dal Pd di Renzi nel 23 dicembre 2015: riduzione del cda e attribuzione di un potere quasi assoluto all’amministratore delegato (non più direttore generale) che entra con diritto di voto nello stesso cda.

Da allora, al manager spetta, ad esempio, nominare i direttori di rete, di testata, dei canali digitali e anche i dirigenti di seconda fascia. Inoltre sarà suo compito firmare i contratti fino a 10 milioni di euro, assumere, nominare e promuovere i giornalisti e deciderne la collocazione. Ecco, pare che ora che c’è il centrodestra al potere l’assetto, essendo antidemocratico e, massì, un tantino fascista non vada più bene. Pare che tale documento, modificato, verrà riproposto all’attenzione del continente, in un’ inesausta moral suasion della nostra sinistra. Molto “suasion” e poco “moral”... 

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