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Francesco Baccini: "Le mie avventure con De André"

Daniele Priori
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Francesco Baccini, professione cantautore. 60 anni compiuti da pochi mesi, più di 30 anni di carriera, quindici album all’attivo. L’ultimo, uscito la scorsa primavera, si intitola Archi e Frecce. Un album nel quale Baccini ha destrutturato e ricostruito i suoi brani più famosi in un contesto acustico e raccolto, accompagnato dagli archi dell’Alter Echo String Quartet e dagli arrangiamenti di Michele Cusato. «Scrivo solo quando ne sento il bisogno. Se dovessi mettermi a scrivere per creare un prodotto, quella non sarebbe più arte e preferirei fare altro. Mentre io credo che per riuscire a emozionare il pubblico ho bisogno di divertirmi io per primo». È nato il giorno del santo patrono d’Italia di cui porta il nome. Un altro un po’ anarcoide come lui. Che vive di canzoni, sorrisi e scanzonata ironia. «Difficilissima da far capire. Di più in un’era come questa in cui si prende ogni cosa alla lettera... Io però resto un convinto difensore della libertà di espressione». Si starebbe ore ad ascoltarlo parlare della musica e del mondo. «Sono le lezioni di vita che ho appreso proprio dai cantautori che mi hanno insegnato a pensare e vivere». E come fai a non dargli ragione. Quando sottolinea che in fondo, anche tra genitori e figli, in famiglia come a scuola e in ogni contesto «la libertà comporta responsabilità. Sentirsi dire dei no fa bene. Io con mio figlio che ha 25 anni ho fatto così e oggia bbiamo un buonissimo rapporto. Ci parliamo, mi chiede consigli. Ma dev’esserci una linea, quella del rispetto, da marcare subito». Non crede ai genitori amici. Anzi «quella è esattamente la prova della deriva dell’idea di libertà a cui siamo arrivati».

Archi e frecce fanno pensare agli indiani. Musicalmente parlando si sente in una riserva?
«Archi e frecce è un progetto a lunga scadenza in un’epoca in cui la musica ormai è usa e getta. Io sono il penultimo degli indiani. Prima di me ci sono Paoli e Fossati. Gli indiani in fondo erano i veri abitanti dell’America. Solo che noi siamo cresciuti con una letteratura un po’ distorta in cui lo sceriffo era quello buono e loro i cattivi. E in fondo è quello che capita agli artisti che in vita non vengono mai capiti dai contemporanei perché troppo avanti rispetto al loro tempo. Pensi a Fabrizio De André che ha venduto più dischi da morto che da vivo...».

Quanto conta per lei ancora oggi questa vicinanza e quanto sente la mancanza di De André a 25 anni dalla scomparsa?
«L’assenza di Fabrizio è stranissima. A pensarci mi sembra l’altro giorno. Io all’inizio lo conoscevo dai dischi. Era un personaggio che non appariva mai, molto misterioso. Era uno che non amava mostrarsi se non sulle copertine dei dischi, col ciuffo davanti la faccia. Si figuri che era talmente timido che faceva le interviste quasi solo per iscritto e le inviava via fax. In dieci anni di frequentazione a casa sua avrò visto al massimo sei persone, quattro delle quali non avevano niente a che fare con la musica. Lui però con me si divertiva molto. Passavamo le nottate a parlare di tutto e anche se per età poteva quasi essere mio padre, la vedevamo allo stesso modo sul mondo. Tanto che poi con Jannacci cominciarono a dire che io ero un errore temporale, ero uno di loro, che somigliavo a Tenco. E infatti Fabrizio ogni tanto mentre parlava si sbagliava e mi chiamava Luigi proprio perché Tenco era molto ironico. Tanto che alcune sue canzoni sono censurate ancora oggi dopo cinquant’anni. Di sicuro la cosa che mi manca di più è poter alzare il telefono, chiamare Fabrizio e commentare quello che sta succedendo intorno. Una cosa che facevamo sempre. Mi divertirebbe molto parlare di questi ultimi vent’anni con Fabrizio. Ci faremmo delle risate amare».

Dori Ghezzi continua a sentirla?
«Ma certo. Con tutte le volte che ci siamo visti a casa loro! Dori tra tutti noi era la più razionale. Ricordo una sera che andai da loro con la macchina nuova, la prima che ero riuscito a comprare coi soldi guadagnati con la musica. Andai da Fabrizio e Dori a Milano e dovevo tornare subito a Modena dove stavo lavorando al mio secondo album. Così a mezzanotte me ne andai. Scesi sotto e non c’era più la mia macchina. Io e Fabrizio subito in ansia, pensando l’avessero rubata. Lui che mi raccontava che era accaduta la stessa cosa al figlio Cristiano la settimana prima, Dori invece mentre noi continuavamo a parlare aveva pensato a chiamare i vigili e scoprì che la macchina era stata portata via dal carro attrezzi perché l’avevo parcheggiata sulle strisce. Così io e Fabrizio andammo in piena notte dai vigili di Milano che quando ci videro erano quasi increduli. La macchina poi la recuperai alle 4 del mattino...».

Poi lei fece l’album Nomi e cognomi che segnò una prima svolta nella sua carriera.
«Con quell’album ho rischiato grosso. E proprio Fabrizio mi preannunciò che quel lavoro mi avrebbe creato problemi. Me lo disse dopo che gli feci ascoltare in anteprima la canzone Renato Curcio dedicata all’ideologo delle Brigate Rosse. Mi disse che era la canzone che tra le mie amava di più. Quella notte la ascoltò forse quaranta volte di seguito nel walkman. In quell’occasione mi fece ascoltare in anteprima il provino de La domenica delle salme dove in effetti pure lui parlava di Curcio. E tra noi ci siamo chiesti cosa ne avrebbero capito i ragazzi di allora, figuriamoci oggi...».

In quell’album c’era la canzone Giulio Andreotti...
«Che mi costò anni di allontanamento dalla Rai. Fortunatamente la portai al Festivalbar dove mi presentai sul palco vestito da prete nell’imbarazzo di tutti e prima ancora, quando non l’avevo neppure incisa, la presentai come un bis al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. Non lo sapeva nemmeno il mio discografico. Fatto sta che il giorno dopo Andreotti mi fece contattare per ascoltare la canzone e poi si complimentò in una lettera scritta con inchiostro verde nella quale mi disse che io nella canzone parlavo di lui proprio come lui stesso si sarebbe descritto. Finì che mi chiese i biglietti per un concerto e venne con un suo nipote. Detto ciò scoprii addirittura che le radio nei tabulati inserivano la canzone ma poi in realtà non la mandavano in onda...».

Con Andreotti quasi diventaste amici...
«Andreotti era di un acume micidiale... Poi mi scrisse anche Curcio. Andai ad incontrarlo a Rebibbia e si offrì come attore per il video. Qualcosa che io mai mi sarei permesso di chiedergli. In carcere lo incontrai nel braccio dei detenuti politici dove non riuscivo più a distinguere tra estremisti di destra, di sinistra e secondini. Figurati che ricordo un uomo gentilissimo che faceva il caffè, credo dividesse la cella con Curcio. Scoprì dopo dalle foto che uscirono sul settimanale Epoca che mi accompagnò in quella visita che si trattava del terrorista di estrema destra Concutelli».

Senta, fra un mese saremo in pieno Sanremo. Le piace la rivoluzione di Amadeus?
«Negli ultimi anni ho deciso che avrei voluto fare solo quello che mi diverte e Sanremo non mi pare tanto rivoluzionario, nemmeno con Amadeus. Anzi resta un posto molto istituzionale in cui al massimo si prova a fare scandalo di superficie con cose che sembrano un po’ studiate a tavolino come due uomini che si baciano sul palco. Ma del resto sono gli effetti della società dell’immagine... Quando uscirono i Queen nessuno si pose il problema che Freddie Mercury fosse gay. Io continuo a pensarla così, a non seguire le mode e ad ascoltare la musica che amo. Il successo sarebbe tornare ad educare all’ascolto anche i ragazzi». 

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