Venga, venga che ci mettiamo comodi in cucina».
Beh, inevitabile vista la sua passione per i fornelli.
A proposito, Vito, quando ha fatto da mangiare l’ultima volta?
«Quattro giorni fa per i miei amici: gazpacho, ravioli con burrata, gamberi e pomodorini. E, come dolce, mango frullato con sciroppo d’acero».
Ne parla con grande trasporto: come nasce l’amore per il cibo?
«Io non sono stato partorito, sono stato sfornato: a casa mia ho sentito parlare di mangiare fin da quando ero ancora nella pancia di mia madre. E da ragazzino mia nonna, ogni mattina, veniva a svegliare me e mia sorella Roberta. Tirava su la tapparella e diceva: “Sa fagna da magner inqu: da sot o da brod?”, cosa cuciniamo oggi, pasta asciutta o in brodo?».
Meraviglioso. Questo suo hobby lei è riuscito a portarlo in tv con “InVito a cena” su RaiSat, in cui metteva a tavola personaggi famosi. E poi, dal 2013 al 2021, conducendo, insieme con suo padre Roberto, “Vito con i suoi” su Sky Gambero Rosso.
«Centodieci puntate, la trasmissione tuttora più vista del canale. Le ricette erano il pretesto per raccontare delle storie, andavamo a braccio senza copione».
Suo papà è morto di Covid nel marzo 2021.
«Un colpo durissimo. L’ha ucciso la solitudine, dopo essere stato ricoverato per tre settimane tutto solo, senza possibilità di vederci.
Non abbiamo potuto fargli nemmeno il funerale».
Le manca?
«Tantissimo, e soprattutto mi manca il momento della colazione la mattina, con lui e mamma. Era un uomo onesto, un punto di riferimento per me e per tutti quelli che gli volevano bene».
Lei, da cinque anni, è tornato ad abitare qui a San Giovanni in Persiceto: come mai?
«A Bologna c’era troppo casino, meglio stare tranquillo al paese di origine».
E che fa?
«Sono in pensione, però continuo a lavorare a teatro con dei monologhi. L’ultimo è “L’altezza delle lasagne”, cattivissimo contro il mondo del food, e nasce da una battuta proprio di mio papà».
Cioè?
«Convegno di cucina, si apre il dibattito sulle lasagne e un giornalista chiede a mio padre, come fosse un oracolo: “Quanti strati si devono fare?”. E lui: “Sette!”.
“Perché?”. “È l’altezza della mia teglia!”. Tutti a ridere e convegno sputtanato».
A proposito, parliamo di comicità.
«È difficilissima: più facile far piangere che ridere. Questione di tempi, di momenti: a volte sbagli un fiato e la battuta non funziona più.
Eppure al Festival di Venezia non premiano la commedia, proprio nel Paese in cui è nata con i vari Tognazzi, Gassman, Salce, Monicelli. Assurdo».
Ora va molto di moda la stand up.
«Se è sincera mi piace, se volgare a tutti i costi non mi fa ridere. Nei miei monologhi io non uso parolacce e non tratto temi politici».
La tv le manca?
«No, l’ho fatta a grandi livelli e ora sono cambiate molte cose. Non sento il bisogno di tornarci, ho un’età diversa e c’è anche un linguaggio differente. E poi sono un orso, sto bene a casa ed esco poco».
Ma la gente, quando la riconosce, cosa le chiede?
«Di fare selfie, che sono un tormento. E la domanda tipica è: “Ci fai gli occhi alla Vito?”».
Li fa?
«Certo, malgrado l’imbarazzo. Ancora oggi, quando mi agito, ho le orecchie che diventano rosse: pensi che Fellini, sul set, me le faceva coprire dal cerone».
Geniale. Ma è sempre stato così timido?
«Fin da piccolo».
Torniamoci insieme al bambino Stefano Bicocchi.
«Nasco qui a San Giovanni in Persiceto il 23 dicembre 1957 e, quando ho tre anni, vengo invitato al matrimonio dei miei genitori».
In che senso?
«Mamma Paola resta incinta, ma i miei, finché non hanno abbastanza soldi, non si sposano e abitiamo nello stesso caseggiato dei nonni, con i quali cresco. Ed è una grande fortuna».
Scuole?
«Studio tanto, ma quando vengo interrogato faccio scena muta per l’emozione. Dopo la terza media frequento l’istituto di avviamento al lavoro e poi trovo un posto in fabbrica come operaio».
E intrattiene già i colleghi con qualche spettacolino?
«Macché, non ci penso lontanamente: non sono certo il tipo da barzellette o show. Ad un certo punto, però, decido di affrontare l’insicurezza e mettermi in gioco, provando a frequentare la scuola di “Teatro Bologna” di Alessandra Galante Garrone. Ma c’è un problema: per essere presi bisogna fare due settimane di lezioni propedeutiche, quindi dovrei lasciare la fabbrica».
E come fa?
«A tavola, una sera, dico a tutta la famiglia riunita: “Mi licenzio perché voglio fare l’attore”. Silenzio. Finché nonno Marino prende la parola: “Beh, lavoriamo già in cinque, possiamo fare a meno del suo stipendio: ha 20 anni, facciamolo provare. Alla peggio troverà un altro impiego”».
Grande apertura mentale. Come mai ride?
«Perché poi non è mai venuto a vedermi a teatro. “Se ti fischiano la responsabilità è mia”, ripeteva».
Invece la scuola la prende e poi viene chiamato a fare “Gran Pavese Varietà” al circolo Arci “Cesare Pavese” di Bologna.
«Un progetto all’avanguardia con una comicità nuova, pensato da Syusy Blady e Patrizio Roversi. Con i Gemelli Ruggeri e...».
...aspetti, come sono i giovani Syusy e Patrizio?
«In quel periodo stanno già insieme, sono sempre in lite e sono bravissimi. Syusy, tra tutti noi, è quella con le idee più forti, è avanti nel tempo».
Quando Stefano Bicocchi diventa Vito?
«Ai tempi della scuola devo interpretare un personaggio strano, un cugino di Syuysy raccomandato che viene dal sud, in smoking con il maglione di lana e con un tacco alto tipo Mino Reitano. Serve un nome e ci viene in mente Vito: è corto, tipico pugliese e immediato. Perfetto».
E gli occhi sbarrati?
«Derivano dall’imbarazzo, dal terrore di esibirmi».
“Gran Varietà Pavese” va benissimo e fate spettacoli in tutta Italia.
«C’è la fila per entrare e tra gli spettatori spesso viene gente come Umberto Eco o Giovanni Minoli. Ma quella volta al Sistina di Roma».
Che succede?
«Interpreto Andreotti e indosso una canottina, mentre in testa ho una calza di nylon e la parrucca. Finito lo spettacolo vado in camerino e mi spoglio per metà.
Sento bussare alla porta: “Sono Federico Fellini, vorrei parlarle”. Pensando sia uno scherzo dei miei amici rispondo seccato: “Sì, sì, va bene signor Fellini, torni tra un quarto d’ora”. Passano 15 minuti e sento ancora bussare, allora apro in mutande, con la calza in testa e...».
È il vero Fellini?
«Sì e resto senza parole.
Lui sorride: “Non si preoccupi, va bene così. Le posso parlare?”. E mi propone di fare un film con lui».
Che è “La voce della Luna”.
«Vorrebbe farmi fare il protagonista. Mi scatta qualche foto e dice: “Tra due settimane la produzione la chiamerà”».
La telefona arriva?
«Sì, dopo un mese. Ma è ancora Fellini: “Guardi, lei non è molto conosciuto e la produzione non se la sente di prendersi questa responsabilità, quindi abbiamo pensato a Benigni. Mi spiace, sarà per un’altra volta».
Che beffa.
«Dopo 15 giorni, però, mi telefona un’altra volta. “Signor Vito, io voglio lavorare con lei e ho scritto una parte apposta per il suo personaggio”. E così faccio parte del cast».
Come è l’esperienza sul set con “Il Maestro”?
«La mattina, quando arrivo, mi chiede sempre: “Vitolino cosa vuoi: caffè o cappuccio? Mettiti sulla mia sedia che vado a prendertelo”».
Urca. Altri ricordi?
«La cosa incredibile è che non esiste un copione».
Come fate?
«Fellini ha tutto in testa e mi spiega la scena e le battute al momento, il film è un work in progress. E poi lui lavora sempre inginocchiato sotto la macchina da presa perché non ha il monitor e si fida dell’operatore».
Poi parliamo degli altri film in cui ha lavorato. Torniamo al teatro, intanto. Anzi, alla tv perché lei nel 1986 partecipa a “Drive In”.
«Sono gli anni delle parole a mitraglia e dei tormentoni e io vado controcorrente, interpretando un personaggio completamente muto che non dice nemmeno una sillaba».
Ma funziona.
«Sì, un grande successo che travolge me e la mia famiglia. Noi, persone semplici, non siamo abituate al clamore, tanto che mia mamma dopo le prime puntate, quando le dicono “Ho visto tuo figlio al Drive In”, risponde: “No, no non è lui ma uno che ci somiglia”».
Un collega che non dimenticherà mai di quel programma mitico?
«Giorgio Faletti e il suo Vito Catozzo, fantastico. I monologhi originali che ci fa vedere in prova sono ancora più divertenti di quelli che vanno in onda, spesso parzialmente censurati».
Nel 1987, sempre su Italia 1, fa “Lupo solitario”.
«Antonio Ricci firma la regia, ma praticamente l’idea è mia, di Syusy Blady e Patrizio Roversi, che sono i conduttori. Ci sono dei momenti incredibili, tipo quando sono ospiti gli ufologi che raccontano cose assurde diventando esilaranti».
Il programma dura solo tre mesi, ma ha un seguito inaspettato. E fate il boom.
«Ci divertiamo, stiamo bene insieme e il nostro segreto è che non cerchiamo il successo a tutti i costi. E nemmeno guadagni stratosferici».
Come mai quella smorfia?
«Per fare “Lupo solitario” quell’anno prendo circa 20 milioni. Un giorno mi chiamano dalla Rai: “Se viene a Europa Europa” ls paghiamo 600 milioni».
Accetta?
«No. In quel momento abbiamo tutto e viviamo nella “Milano da bere”, per un’ospitata in discoteca ci danno 10 milioni, ci invitano a tutte le feste della città, nei ristoranti non paghiamo e dobbiamo girare scortati perché la gente ci assalta».
Siete all’apice del successo.
«Sì, ma io Syusy e Patrizio non perdiamo la testa, anzi. Passiamo le serate in residence a giocare a carte e restiamo umili: venire da famiglie solide ci salva la vita».
Anche perché in quel periodo gira tanta droga...
«Nelle poche feste in cui andiamo, perché obbligati dalla produzione, passano con i vassoi di cocaina: bruciarsi a Milano negli Anni ’80 e ’90 è un attimo».
Andiamo avanti. Nel 1988 lei fa parte del cast di “Matrjoska”, programma che però, dopo la puntata pilota, non va più in onda.
«In quel numero zero si esibisce il coro dei giovani di Comunione e Liberazione e, subito dopo di loro, appare Moana Pozzi. La cosa non fa piacere a CL, che si lamenta con Craxi, il quale chiede a Berlusconi di sospendere il programma».
Subito dopo nasce “L’araba fenice”.
«Siamo più o meno gli stessi e continuiamo a osare».
Moana come è?
«Bellissima, dolcissima. E di gran classe: gira per lo studio nuda, ma dopo 10 minuti nessuno ci fa più caso da quanta è elegante».
Vito, torniamo al cinema. Dopo “La voce della luna”, nel 1995 e nel 1996 lavora in “Ivo il tardivo” e “Ritorno a casa Gori” per la regia di Alessandro Benvenuti.
«Grande sintonia con lui, ma anche grande fatica».
Perché?
«Ogni sera, finito di girare, si va a cena e si parla del più e del meno. La mattina dopo io arrivo sul set con la mia parte imparata bene a memoria e, regolarmente, lui mi consegna due paginette nuove, con quanto detto la sera prima. Un continuo cambiare testo, un’angoscia».
Lei in tutto partecipa a 32 film. Impossibile raccontarli tutti: ne scelga due.
«“Radiofreccia”, nel quale ho una parte piccolissima di soli tre minuti, ma fatta su misura per me da Ligabue: faccio un cameriere cattivissimo e sudato. Molto bello.
La mia fortuna è stata che non ho mai dovuto fare provini o adattarmi, ma mi chiamavano per sfruttare le mie caratteristiche».
Il secondo?
«“I Vicerè” di Roberto Faenza, nel 2007, la mia prima pellicola drammatica.
Interpreto un “fra’ Carmelo” e per preparami trascorro un mese con un coach che mi insegna il catanese antico. Nel cast c’è anche Lucia Bosè e, mentre tutti i protagonisti si contendono le roulotte, lei che è una diva se ne sta sola, seduta su una sedia, con un ombrellino in mano. Grandissima umiltà».
Vito, siamo alla fine dell’intervista. Ultime domande veloci: 1) Rapporto con il cibo?
«Non ho pudore, nel senso che se c’è da fare una scarpetta non mi fermo.
Non mi sono trattenuto nemmeno in Francia, in un ristorante stellato dello chef Paul Bocuse: tutti mi guardavano male, lui invece è venuto al tavolo e mi ha dato la mano».
2) Paura della morte?
«Sì, temo la fine e il dover lasciare tutto».
3) Qualcuno che vorrebbe riabbracciare?
«Luciano, il mio manager storico che è morto nel 2012. Siamo cresciuti insieme: ho tatuato il suo nome sul braccio».
4) Ultimo film visto?
«Il fantasy “Nosferatu”. Da pelle d’oca».
5) Una cazzata che non rifarebbe nella vita?
«Rinunciare a quei 600 milioni della Rai».
6) Il più matto con cui ha lavorato?
«Francesco Salvi. Ricci gli diceva: “Metti meno energia”. E lui: “Non riesco”».
7) Comici preferiti?
«Ollio e Stanlio. Chaplin, Keaton e Marx, invece, non mi hanno mai fatto ridere».
8) Più duro fare l’attore o il cuoco?
«Il cuoco: quando in estate ci sono 40 gradi, in cucina ce ne sono 45».
9) Cosa pensa dei giovani?
«Alle nuove generazioni voglio bene, ma dovrebbero usare un po’ meno il cellulare che le rincoglionisce».
Ultimissima. Abbiamo parlato molto di comicità, ma quando è, invece, l’ultima volta che lei ha pianto?
«Mi commuovo ogni giorno per la mia cagnolina Nana. È una bassotta di 18 anni, sorda e un po’ cieca. Dorme a fianco del mio letto e di notte, ogni tanto, allungo la mano così mi tocca e si tranquillizza. La adoro».