Piero Badaloni è entrato nelle nostre case- con modi pacati, equilibrio e garbo - per 35 anni, sia con il TG di Rai 1 (edizione delle 13.30 e poi quella serale delle 20) che con i primi e più importanti programma di intrattenimento e informazione (“Italia sera”, “Unomattina” e “Piacere Raiuno”) della tv italiana. Cronista, inviato, conduttore e infine corrispondente dall’estero, Badaloni ha raccontato i principali eventi degli ultimi 50 anni - dal rapimento Moro all’attentato a Papa Wojtyla fino alla tragedia di Vermicino-, con una parentesi politica come Presidente della Regione Lazio. Ora, a 79 anni, è in pensione, ma continua a lavorare producendo documentari.
Piero Badaloni, appuntamento in uno studio di registrazione: ma lei non è in pensione?
«Dal 2011, però lavoro quasi più di prima: oggi sono stato in sala montaggio dalle 10 di mattina alle 17.30».
Cosa fa?
«Documentari come free lance attraverso una società di produzione, che poi vanno in onda in Rai o su altre emittenti».
Quanti ne ha realizzati?
«Ventiquattro, dieci dei quali sulle Dolomiti, che adoro. Gli altri trattano temi sociali come le donne e la conquista del diritto al voto (“La lunga marcia”) o la disponibilità dell’acqua nel mondo (“La grande sete”). Quest’ultimo che sto preparando, e uscirà a Natale su Tv2000, è sui diritti non rispettati dei minori migranti (“Diritto al futuro”)».
Lavori e temi impegnativi.
«Per 60 minuti di documentario servono almeno 6 mesi di ricerca e preparazione, non è una passeggiata. Ma il segreto per invecchiare bene è far lavorare la testa in continuazione e io mi diverto così. Sono tornato al primo amore: faccio quello che facevo a inizio carriera».
Allora torniamoci insieme agli inizi. Anzi, al piccolo Piero Badaloni.
«Nasco a Roma l’8 settembre 1946. Papà Luigi lavora nella segreteria del governatore della Banca d’Italia, mamma Giovanna accudisce noi figli».
Quanti siete?
«Quattro, 2 maschi e 2 femmine. Io sono il più grande».
Bambino timido?
«Abbastanza, ma la svolta è quando, a 12 anni, entro nei boy scout e poi faccio tutta la trafila fino a diventare, a 20 anni, uno dei capi. Esperienza fantastica: imparo a rispettare la natura e le diversità, a saper stare in gruppo e fare lavoro di squadra. Lo scoutismo ha 100 anni, ma la sua metodologia educativa è di straordinaria attualità».
Frequenta ancora quel mondo?
«L’ho ritrovato a 40 anni, perché c’era carenza di capi e cercavano adulti ex scout disponibili a gestire i ragazzi tra i 12 e i 16 anni. Altra avventura meravigliosa».
Torniamo alla sua gioventù: scuole?
«Dopo quelle dell’obbligo mi iscrivo al Liceo classico Virgilio. E mi cambia la vita».
Perché?
«Nel banco a fianco c’è Maria Novella, che poi diventa la mia compagna».
Quando vi fidanzate?
«Ci metto parecchio per convincerla: accetta quando abbiamo 22 anni e frequentiamo l’università, io giurisprudenza e lei lettere. Nel ’71 ci sposiamo: oggi, dopo 54 anni, siamo ancora insieme felicemente».
Complimenti, una rarità di questi tempi: il segreto?
«La lontananza per i miei continui impegni ha mantenuto fresca la relazione: quando ero corrispondente all’estero un fine settimana veniva lei e un altro tornavo io a casa».
Figli?
«Tre. E, tanto per chiarire, la Roberta Badaloni che lavora al TG1 non è tra loro».
Ma è una parente?
«Figlia di un mio cugino: Mario Badaloni».
Perché quello sguardo?
«Quando, il 28 gennaio 2016, Mario muore, Roberta scrive un ricordo su Facebook: “Un pensiero per mio papà che non c’è più”. Non mette il nome di battesimo, però, così tutti, dal cognome, pensano che il morto sia io».
E che succede?
«Squilla il telefono, è mio figlio: “Papà, tutto ok?”. Dopo cinque minuti chiama il capo redattore del Corriere Roma, un amico che non sento da tempo: “Piero, come stai?”. Mi insospettisco: “Bene, ma perché mi telefoni?”. “Volevo sentire la tua voce: gira la notizia che tu sia deceduto. Smentisci subito”. Apro Wikipedia e resto senza parole: accanto alla data di nascita c’è già quella della morte».
Ma lei è scaramantico?
«No, comunque dicono che porti bene e mi fido».
Beh, è in gran forma.
«Sì, malgrado un cuore un po’ acciaccato».
Ah, quindi è vero che fare il giornalista è un lavoro stressante?
«In verità tutti i guai sono iniziati con il primo pacemaker nel 2000, subito dopo i 5 anni alla guida della Regione Lazio: è la politica che stressa».
Badaloni, facciamo un altro salto all’indietro: come nasce la passione per il giornalismo?
«Fin da piccolo amo scrivere, nei temi sono bravo e al Liceo inizio a collaborare con il giornalino scolastico “La Graticola”, nel quale racconto le gite. Poi vorrei fare la scuola di giornalismo, ma papà, che è pragmatico, mi consiglia di laurearmi in giurisprudenza. “Così hai un piano B”, dice».
Quando il primo contatto con la Rai?
«Nel settembre del 1971 ed è merito del fidanzato di un’ amica: mi spiega che cercano collaboratori, li contatto e vengo preso per uno stage gratuito di 6 mesi».
Di cosa si occupa?
«C’è bisogno che qualcuno curi le rubriche religiose perché nessuno degli assunti ne vuole sapere. Così mi faccio avanti e inizio con “Domenica ore 12”, appuntamento settimanale sul mondo cattolico».
Servizio d’esordio?
«Un’intervista a don Luigi Ciotti, col quale instauro un ottimo rapporto che continua nel tempo».
Come mai sorride?
«Una volta mi chiede se sono disposto a ospitare un gruppo di 12 ex tossicodipendenti che frequentano la sua comunità. Lascio loro la casa per una settimana e, al ritorno, trovo tutto più in ordine e pulito di prima. Ma ci sono 1000 lire e un biglietto sul tavolo della cucina: “Scusateci: abbiamo rotto un piatto. Ecco i soldi per ricomprarlo”. Emozionante».
Continuiamo con la carriera.
«Nel 1972 il capo della cultura mi chiede di andare a realizzare un documentario sul restauro della Pietà di Michelangelo, che un pazzo unghereseun certo László Tóth - ha rovinato. È un lavoro che dura 8 mesi, ci sono da ricollocare 101 frammenti e il team giapponese che deve occuparsene ha un problema: non riesce a togliere la vernice lasciata dalle martellate sul velo della Madonna».
Che succede?
«Il macchinista della Rai mi guarda e dice: “Se provassero con il nostro nastro adesivo ce la potrebbero fare”. Lo propongo al capo dell’équipe, che è così disperato da accettare».
Ci riuscite?
«Applichiamo il nastro, lo scaldiamo con le luci e strappiamo: poco alla volta la vernice viene via. E i giapponesi hanno la bava alla bocca».
Altri servizi così “strani”?
«Quello del 1974».
Che fa?
«Franco Zeffirelli sta girando la miniserie tv a puntate “Gesù di Nazareth” per la Rai. La sceneggiatura, che è stata preparata con attenzione per rispettare le culture ebraica, protestante e cattolica, è blindata: il mio compito è controllare che Zeffirelli non cambi nulla».
Complicato gestirlo?
«Tende a mostrare i miracoli in modo ambiguo, quasi come poteri paranormali di Gesù. E la mattina, sul set, spesso devo intervenire perché mi accorgo che ha modificato i dialoghi. Alla fine, però, troviamo una sintonia e Zeffirelli, addirittura, chiede consigli a me che ho solo 28 anni».
Un momento da ricordare di quell’avventura?
«Da Roma chiedono un servizio speciale sul dietro le quinte del film: sa cosa mi invento?».
Dica.
«Una partita a tennis tra Gesù e Giuda, visto che gli attori sono bravi con la racchetta e già si sfidano tra le pause».
Geniale. Chi vince?
«Gesù».
Badaloni, ma tutti questi lavori sono da precario?
«Sì, l’assunzione arriva nel 1975, dopo una causa fatta insieme con altri 100 colleghi: siamo fortunati, è l’anno della riforma della Rai in cui si passa al pluralismo e serve gente».
Di cosa si occupa da assunto?
«Cronaca. Sono gli “Anni di piombo” e uno dei primi servizi che mi assegnano per il TG1 è l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio: vogliono che intervisti un parente della vittima, cosa che a me sembra fuori luogo e mi fa sentire a disagio».
Ci riesce?
«Quando citofono a casa, evidentemente, trasmetto quel mio imbarazzo alla famiglia e scende Eugenio, il giovane figlio di Occorsio, che mi rilascia una testimonianza da brivido.
E sa una cosa?».
Racconti.
«Vent’anni dopo ritrovo quel ragazzo, nel frattempo diventato giornalista, a Bruxelles. Ricordiamo quel momento e mi conferma che mi aveva concesso l’intervista solo perché aveva capito che non cercavo del sensazionalismo».
Il 9 maggio 1978, in via Fani, rapiscono Aldo Moro, allora presidente della Dc.
«Per 55 giorni vengo mandato sotto casa sua con l’illusione che qualcuno della famiglia faccia una dichiarazione. Il 9 maggio invece...».
Dove è?
«In Questura. Ufficiosamente ci dicono che Moro è stato ritrovato morto e chiamo immediatamente il TG1 chiedendo la linea per annunciare la drammatica novità».
Dà un “buco” a tutti?
«Macché. Rispondono di aspettare che ci sia una conferma: in quegli anni il TG1 non dà nessuna notizia senza l’ufficialità dell’agenzia Ansa».
Quindi?
«GBR, tv privata romana, brucia tutti».
Nel 1980 la mandano, come inviato, in Irpinia per il terremoto e grazie ai suoi servizi, poi, vince il premio “Cronista dell’anno”.
«Arrivo a Pescopagano la mattina del 24 novembre e trovo le vittime dell’orfanotrofio, l’ospedale chiuso e i circa 60 pazienti del nosocomio che vengono trasportati nel campo sportivo. Poche ore prima c’è stata l’Apocalisse. Cerco di raccontare storie, raccogliere testimonianze, ma più di una volta ho la tentazione di lanciare via il microfono ed aiutare i Vigili del Fuoco impegnati nelle opere di salvataggio: sento i gemiti dei sepolti vivi sotto le macerie e l’istinto mi dice di scavare con i soccorritori».
Un anno dopo, il 13 maggio 1981, altro evento drammatico a Roma.
«Finisco il turno di lavoro, mi metto in auto e mi accorgo che il traffico è bloccato. Domando che sta succedendo e qualcuno spiega che alla radio hanno detto che c’è stato un attentato a Papa Wojtyla».
E che fa?
«Inversione a U con la mia 500, torno in tv e conduco un’edizione straordinaria dalle 18 fino al TG delle 20. Prima della diretta chiedo di recuperarmi tutte le notizie uscite, ma mi danno solo un foglio che contiene un lancio dell’Ansa di tre righe...».
Urca e come se la cava?
«Mi salva Alì Agca, nel senso che ad un certo punto esce il suo nome. E, nel frattempo, mi aiuta un collegamento in diretta con il collega Alberto Michelini dal Policlinico Gemelli».
Come si improvvisa in un momento così?
«È fondamentale l’autocontrollo e la gestione di ogni singola parola, che va misurata perché l’emotività di tutti è molto alta».
Lavoro difficilissimo e delicato che lei, poi, affronta ancora pochi mesi dopo, quando è alla conduzione del TG1 delle 13.30.
«È il 12 giugno 1981 e, dalla mattina, si sa che a Vermicino è caduto un bambino in un pozzo».
Il povero Alfredino Rampi.
«Noi abbiamo le telecamere già sul posto, facciamo un collegamento di un minuto ma, in chiusura di TG, l’inviato Pierluigi Camilli chiede ancora la linea: “Un vigile del fuoco mi ha riferito che nel giro di un quarto d’ora il bambino verrà salvato”. Emilio Fede, che è il direttore, a quel punto mi fa cenno di non interrompere il collegamento».
E inizia un’incredibile maratona di 18 ore.
«La nostra idea è raccontare una storia a lieto fine, invece racconteremo una tragedia».
Mai pensato di fermarvi?
«Ad un certo punto lo facciamo, anche perché a Vermicino c’è una sola telecamera per le tre reti e le immagini sono le stesse. In pochi minuti, però, arrivano così tante richieste di tornare in onda che riprendiamo».
La difficoltà maggiore?
«Io ho 35 anni e sono già padre, cerco di rispettare soprattutto il dolore e la grande dignità di Franca, la mamma di Alfredino. E quando lei, mentre sta chiedendo informazioni a un vigile del fuoco, viene spinta da un cameraman che la vuole far girare a favore di telecamera, condanno con fermezza il gesto in diretta».
Lei ci va a Vermicino?
«Una sera, finito il turno di conduzione, mi reco sul posto per capire da vicino cosa sta succedendo: trovo migliaia di persone e, incredibile, gli ambulanti che vendono bibite e panini. Una cosa sconvolgente».
Alle 7 di mattina del 13 giugno, dopo una notte insonne, le tocca il compito più ingrato: annunciare la morte di Alfredino.
«Quel momento segna l’inizio della tv del dolore. A fine giornata, uscendo dalla redazione, capisco che con la lunga diretta abbiamo sbagliato tutto: non avremmo dovuto far sentire a tutta Italia la voce di Alfredino che, agonizzante, stava lottando per la vita. È stato uno sciacallaggio».
Badaloni, dopo la conduzione del TG1 lei diventa autore e presentatore di programmi di servizio come “Droga che fare” e poi “Italia sera” insieme con Enrica Bonaccorti.
«Quest’ultimo è il primo esempio d’infotainment, trasmissione di informazione e intrattenimento. La vera sfida, però, arriva nel 1986 con “Unomattina”».
Perché?
«In quegli anni l’Italia è l’unico Paese in Europa che non ha una programmazione mattutina e Biagio Agnes, direttore generale della Rai, ci dà cinque mesi per inventare qualcosa.
C’è da pensare a un format e chiediamo aiuto al Censis, che ci fornisce i risultati di una ricerca sulle abitudini mattutine degli italiani. Così nasce “Unomattina”, che conduco prima con Elisabetta Gardini e poi con Livia Azzariti».
Nel 1989, invece, presenta “Piacere Raiuno” con Simona Marchini e Toto Cutugno.
«Programma rivoluzionario, primo esperimento di televisione pubblica che ogni settimana va in diretta dal teatro di una diversa città».
Nel 1991, però, torna alla conduzione del TG1.
«Me lo chiede Vespa e mi affida l’edizione delle 20. Dal 1991 al 1995, inoltre, mi occupo di “Linea notte”, che è una sorta di antenato di “Porta a Porta”».
Poi c’è la parentesi politica, nella quale per 5 anni fa il Governatore del Lazio. Terminata quella, torna in tv.
«Mi convoca il direttore generale della Rai e mi dice: “Badaloni, deve spurgare l’immagine politica e l’unico modo è mandarla all’estero: andrà a Parigi come corrispondente”. Io allargo le braccia: “Se è proprio necessario parto”. Poi, fuori dall’ufficio, faccio tre salti mortali dalla gioia».
È il sogno di ogni giornalista.
«E in quel momento è anche l’unica esperienza che mi manca dopo aver fatto il cronista, l’inviato e il conduttore».
Lei lavora a Parigi, Bruxelles, Berlino e, dopo aver diretto Rai International dal 2006 al 2009, a Madrid.
«A Parigi ci sto solo 6 mesi, poi mi spostano a Bruxelles, dove sono felice di lavorare perché, soprattutto in quegli anni, lì si sta costruendo il futuro dell’Europa».
Sul più bello, però, la spediscono a Berlino.
«Ci vado malvolentieri, ma poi mi ricredo: raccontare le contraddizioni della città è affascinante».
Badaloni, ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione?
«Sono cattolico progressista, ma poco praticante. Preferisco andare a riflettere da solo in un eremo».
2) Paura della morte?
«L’ho presa sul ridere quella volta di Wikipedia, considerandola una prova generale. Però ho già detto ai miei figli come organizzare il funerale».
3) Come?
«Con tanta musica, quella che ha accompagnato la mia vita».
4) Cosa pensa del giornalismo di oggi?
«Penso che si dovrebbero verificare di più le notizie senza fidarsi troppo dei social».
5) Il giornalista più bravo con cui ha lavorato?
«Emilio Rossi, mio primo direttore del TG1 che fu gambizzato dalle Br».
6) Il conduttore più bravo?
«Massimo Valentini: è stato lui a insegnarmi il mestiere».
7) Se deve guardare un TG oggi, su quale canale gira?
«La7, perché apprezzo molto Mentana».
8) Cosa pensa dei giovani?
«Punto sudi loro, ma vanno aiutati».
9) Qualcuno che vorrebbe riabbracciare?
«Toni Rizzi, guida alpina e mio primo maestro di roccia».
Ultima domanda: Badaloni ha ancora un sogno?
«Arrivare a 100 anni, ma lucido eh...».




