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Carletto Mazzone, mister eterno: perché è entrato nel mito senza vincere

di Leonardo Iannacci domenica 20 agosto 2023

3' di lettura

 Carlo Mazzone, il romantico Sor Magara di un pianeta del pallone lontano anni luce dall’attuale, tutto soldi e inganni, ha chiuso la sua partita. Nato all’ombra del Colosseo 86 anni fa, da Eternauta del calcio ha finito per essere adottato da Ascoli Piceno, la città dove abitava, dove gli hanno intitolato, da vivo, la tribuna dello stadio e dove ha chiuso con la vita. Per raccontare Mazzone senza cadere nella retorica non si sa da che parte cominciare, lui così colorato e colorito, fuori dalle righe e non sempre al limiti di quelle del campo. Fermandosi agli almanacchi si deve sottolineare il record di panchine in serie A: 797 suddivise nelle undici squadre allenate nel corso di una quarantennale e picaresca carriera. Non solo: comprendendo serie minori e coppe varie, Mazzone ha allenato in 1.278 occasioni. In questa bulimia della panchina, nessuno è stato al suo livello.

Ma l’istantanea più nitida che ne sottolinea l’essenza di uomo vero e sincero ancor più di quella del bravo allenatore, lo vede correre in modo scomposto, con un giubbetto del club, verso la curva degli ultrà dell’Atalanta al termine di un incandescente derby tra il suo Brescia e la squadra bergamasca. Partita rocambolesca finita 3-3. Era il 30 settembre del 2001 e Sor Magara, insultato per tutta la partita da taluni beceri curvaioli, dopo il pareggio segnato dai suoi, partì in una galoppata forsennata, ciondolando per l’età e per l’ansia di rivalsa. Non ne poteva più e lo mostrò al mondo. Quel giorno, anche chi non lo conosceva bene intuì il Dna del Carletto uomo, apprezzandone l’artigianale genuinità e la travolgente personalità. Nel filmato su Youtube si nota tutto questo: lui, alto 1 metro e 90, sudi peso, ghigna rosso in volto e con i pugni stretti per la rabbia verso i balordi. «Tutto potevano dì quei mammalucchi strillerà poi, - peró mamma nun me la dovevano proprio toccà».

In tutti i luoghi e in tutti gli angoli in cui ha allenato, Mazzone ha fatto bene e si è fatto voler bene. Nella sua Ascoli dove inventó insieme a Costantino Rozzi la bella squadra degli anni ‘70, aveva in Francesco Scorsa il leader silenzioso della difesa, l’amato luogotenente. Ebbene, quando si dice il destino beffardo: un’ora dopo l’agenzia che informava della morte di Mazzone, ieri un secondo lancio ci ha annunciato la scomparsa, a 76 anni, proprio di Scorsa. Difficile se non impossibile credere a una crudele coincidenza.

Dopo Ascoli, la storia e la gloria calcistica di questo genio provinciale della panchina che ha chiuso senza trofei importanti ma con un immenso bagaglio di vittorie personali, lo hanno visto a Catanzaro e a Firenze (dove venne indagato e poi prescritto in seguito alla scomparsa misteriosa di Bruno Beatrice, un suo giocatore stroncato dalla leucemia), quindi a Bologna (in tre puntate) e a Lecce, a Pescara e a Cagliari, prima di approdare a Roma dove realizzò uno storico miracolo: intuito il talento enorme di un 16enne biondo delle giovanili, lo gettò nella mischia della serie A, a Brescia. Quel giorno nacque la leggenda di Francesco Totti che lo ha definito «Padre, mister e maestro».

Di impronta tattica italianista, ma non scevro ai cambiamenti quando squadernava moduli ora a uomo e ora a zona, Sor Magara ha poi allenato fior di campioni e inventato magie. Ad esempio quella di arretrare, nel Brescia, il trequartista Pirlo per trasformarlo in un regista pazzesco che ha portato Milan e Italia in cima al mondo. Il rapporto con Roby Baggio, sempre a Brescia, fu a dir poco stellare: il Divin Codino, finalmente stimato da un allenatore che lo stimolava al meglio, disegnò un epilogo di carriera fantastico che gli fece sfiorare il quarto mondiale consecutivo, nel 2002. «Se avesse avuto le ginocchia a posto, Roby sarebbe stato come Maradona», bofonchiò una volta Mazzone. Non aveva tutti i torti. Per molti di questi campionissimi è stato davvero qualcosa più di un allenatore e difatti il docufilm su di lui, prodotto da Amazon, ha per titolo “Come un padre”. Nel 2009, tra la sorpresa generale, Pep Guardiola dedicò a Sor Magara la Champions League vinta con il Barcellona. Un epitaffio più nobile non lo poteva meritare questo signore vero e sincero, in campo e nella vita. 

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