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Gigi Riva, un popolo che piange il suo re

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Francesco Specchia
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Quando Gigi Riva tornerà/Non ci troveranno ancora qua/Con la vita in fallo laterale/E il sorriso fermo un po’ a metà/Tornerà la voglia di sognare/Quando Gigi Riva tornerà...». La prima giornata di Cagliari senza Gigi Riva è un poema omerico, col maestrale a soffiare dal mare e col tappeto sonoro in sottofondo della canzone di Piero Marras sul ritorno impossibile dell’eroe.

La città è coperta dalla tragedia, inghiottita in un silenzio innaturale. Ed è pure attraversata da un serpentone di anime in lutto che si snoda, sin dall’alba, dallo stadio Sardegna Arena davanti all’umile feretro di Rombo di tuono. La bara ha risvolti d’argento, intarsiata da mazzi di rose di campo e coperta dalla maglia numero 11 dello scudetto che fa da sudario. Dentro la bara le spoglie mortali del condottiero sono ricoperte dalla tuta della Nazionale degli anni Sessanta con la scritta cubitale Italia sul petto.

Sul volto di granito si soffermano mille sguardi gonfi di lacrime, accanto, sotto la scritta “Come te nessuno mai”, scorrono le immagini seppiate di quando Giggirriva col sinistro alla nitroglicerina sollevava i cuori assieme alle zolle dei campi da gioco. L’organizzazione del lungo addio è ferrea e democratica: ognuno del milione di cagliaritani previsti in visita, ha un minuto di tempo a disposizione per l’omaggio alla leggenda. Niente foto, niente video, solo epicedi, per favore.

Più passano le ore, più la folla s’ingrossa, e diventa un flusso inarrestabile: frotte di negozianti che hanno chiuso in tutta fretta; ragazzini a cui le scuole giustificano l’assenza; disabili che spingono furiosamente la carrozzella; le squadre giovanili; i politici e gli imprenditori; i pescatori, la gente comune, i pastori nei cui ovili all’addiaccio spesso Riva compariva come un moderno Che Guevara ma timidamente, senza l’idea della rivoluzione.

Ed ecco pure gli amici di sempre: dagli Arrica che lo portarono giovanissimo, dalle lande ai confini della Svizzera a Beppe Tomasini, difensore dello scudetto il fratello che Gigi non aveva avuto, agli figli di Riva, ad ogni sardo che ha voluto credere negli dèi dispettosi del calcio e nel loro profeta. «Gigi Riva ha portato la Sardegna dal Medioevo alla modernità.

 

 

 

DUE DIVINITÀ

Qui nell’isola, infatti, sono soltanto due le divinità che contano: una è Sant’Efisio e l’altra è Riva il guerriero tout court». La definizione del giornalista imprenditore Giuliano Guida Bardi forse è quella che descrive meglio la mistica sussurrata di Gigi Riva. Nell’aria densa della spuma di magnesio delle saline, ora esalano i ricordi. Ogni memoria è una rabona, ogni citazione ha il fragore della rovesciata di Riva del 18 gennaio del 70 a Vicenza su cross di Domenghini.

«Quando il Cagliari vinse lo scudetto io avevo 12 anni, ero in compagnia di uno zio pescatore. All’improvviso, mi apparve questa figura leggendaria, questo gigante lombardo ombroso come un sardo, che aveva cambiato la nostra visione del mondo. Non ci eravamo mai sentiti così grandi. Gigi Riva ci aveva fatto credere nell’impossibile...», ricorda, commosso, Renato Soru mentre, da casa sua, osserva fisso il sagrato del Santuario di Nostra Signora di Bonaria. Dove Riva aveva espresso il desiderio di essere sepolto, e dove oggi si terrà il funerale. Ed è qui che gli ultrà, gli “Sconvoltz” del “Calcio Casteddu”, allestiscono una fiera di striscioni per l’ultimo saluto.

Per le vie d’una città quasi deserta si staglia l’immagine di Riva con la maglia del Cagliari: cartelli, manifesti, fotografie in ordine sparso; nei display dell’aeroporto del capoluogo gira a loop ipnotico la scritta “Ciao Gigi”. Ed è la prima volta che lunga spiaggia brasiliana del Poetto soffre la solitudine. «Qui, ogni sera, Gigi aveva il suo rifugio. Salutava e se ne andava nel suo angolo preferito. Spesso spariva durante la cena per fumarsi una sigaretta chiacchierando con i passanti. Era come un padre, impossibile che non ci sia più», fa sapere Giacomo Deiana, titolare della Stella Marina. Ossia dell’antica osteria dove Rombo di tuono si chetava nel tavolo in fondo al corridoio, quello con la tovaglia color ocra: il luogo perfetto dove inghiottire la solita orata arrosto. E mentre l’inghiottiva, l’eroe in relax raccontava ai fan che pendevano dalle sue labbra di quando faceva l’operaio a Varese in catena di montaggio, addetto alle pulsantiere degli ascensori, ché «da allora quando entro in un ascensore il mio primo sguardo è sui pulsanti».

Ognuno qui, di Riva, rammenta un gesto o una storia diversa. Ci sono i due ragazzi che in strada smisero di menarsi perché la sola presenza del maestro e il suo secco «Calmatevi!» fecero loro da ansiolitico. C’è la signora che per strada fermò il nostro, non riconoscendolo, chiedendogli di firmare una petizione «perché Giggirriva non vada alla Juve». C’è quel tipo anziano in Barbagia che lo aveva invitato nelle tavolate con maialino e salsicce. E ci sono anche quei dirigenti della squadra di calcio dedicata al bomber, i quali evitano di far pagare la quota d’iscrizione ai ragazzini poveri che non possono permettersela. Probabilmente ci sarà, tra chi lo evoca in queste ore, anche qualcuno di quei “banditi”, spinti dalla fame, romantici seguaci del codice barbaricino a cui il nostro uomo diede, negli anni 70, uno straccio di umana solidarietà all’ombra dei nuraghi. Gigi Riva, dalla caliginosa Leggiuno provincia di Varese, era in realtà l’anima ancestrale della Sardegna stessa. Un fenomeno etnico-antropologico difficilmente replicabile. Lui stesso ammise: «Alla Juventus avrei guadagnato il triplo. Ma la Sardegna mi aveva fatto uomo. Era la mia terra, ero arrivato all’età di diciotto anni. In continente ci chiamavano pastori o banditi». Gli dedicheranno lo stadio. «Quando Gigi Riva tornerà/La partita ricomincerà/Grideremo insieme, “Italia, Italia”/ E patetico non sembrerà/Stretti in questo sogno che ci ammalia/Quando Gigi Riva tornerà...». Oggi alle 16 a Cagliari, nella Basilica di Bonaria, i funerali solenni decisi dal governo. 

 

 

 

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