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Atalanta, Domenghini: "Dea da scudetto". Quel pesantissimo precedente

Leonardo Iannacci
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Acciaccato ma mai domo, Angelo Domenghini ha vissuto il trionfo della sua Atalanta reduce da una brutta broncopolmonite. «La serata di Dublino mi ha fatto sentire subito meglio», fa il grande Bergheimer (così lo chiamava Gianni Brera), ala destra scudettata con l’incredibile Cagliari di Gigi Riva ed esterno instancabile della nazionale campione d’Europa nel 1968 e seconda nel mondo a Mexico ’70, allorché Angelo risolse parecchie situazioni agli azzurri. Vero che Domingo, solido 83enne nato a Lallio, nel bergamasco, vive in Sardegna ma ha sempre la Dea nel cuore e il trionfo in Europa League gli ha strofinato per benino i nervi.

Domingo, l’altra sera si è commosso, vero? 
«Un po’ l’età e un po’ la dimensione del trionfo mi hanno scosso. Non capita tutti gli anni di vincere con l’Atalanta. E non certo in quel modo».
L’aiutiamo con la memoria: l’unico trofeo della Dea risaliva al 1963: la Coppa Italia che aveva all’ala destra un certo... 
«... un certo Domenghini, vuole che non me lo ricordi? Quella fu una serata veramente speciale. L’atmosfera non era delle migliori, la partita contro il Torino si giocò a Milano e non a Roma per un motivo malinconico: Papa Giovanni XXIII, bergamasco di nascita, non stava affatto bene, era agli ultimi giorni e la finale venne spostata».
Lei la marchiò in modo indelebile, segnando una clamorosa tripletta. 
«Come Lookman l’altra sera. E dire che non ero mica Gigi Riva, non un bomber di razza ma un’ala destra con il vizietto del gol».
Tre prodezze risolsero quella finale: le ricorda? 
«Certamente: il primo gol lo feci di testa su punizione, il secondo con il sinistro, il terzo con il destro».
Fu una festa a metà, però? 
«Sì. Il giorno dopo morì il Papa e anche in città non ci fu molta voglia di fare caroselli o scatenare feste di piazza».

 

 


Bergamo ha dovuto aspettare 61 anni per esplodere di gioia. 
«E meritatamente. La vittoria di Dublino è stata la degna cornice di un decennio incredibile».
L’Atalanta ricorda un po’ il suo grande Cagliari: una realtà di provincia che ha vinto dopo essere cresciuta con pazienza e lungimiranza. Le piace questo accostamento? 
«Molto. Io arrivai in Sardegna nel 1969 nello scambio che portò Boninsegna all’Inter. Mi inserii in un gruppo collaudato che, prima dello scudetto, era ai vertici della classifica. Nel 1969 il Cagliari era arrivato secondo».
Una storia molto simile a quella dell’Atalanta? 
«Non fu un caso quello scudetto così come non è stato un caso questo trionfo europeo della Dea».
La domanda, quindi, è d’obbligo: prossima fermata, lo scudetto? 
«Sì. L’Atalanta può vincere il campionato perché ha i mezzo societari, l’allenatore giusto e tanti campioni in squadra. A cominciare da Lookman che mi ha imitato nella tripletta in finale».
Cosa le manca per il titolo? 
«Tecnicamente e tatticamente niente. Se dicessi Gigi Riva non andrei molto lontano dalla realtà ma Gigi era unico. Direi che le manca un’altra cosa».
Ovvero? 
«Deve solo crederci. Maturare la convinzione che il tricolore è possibile come lo fu per noi nel 1970. Oppure come per la Sampdoria del 1991 o il Leicester di qualche anno fa in Premier».
Nulla è quindi impossibile? 
«No. Io ci credo allo scudetto. Essere da anni ai vertici, sfiorare un’impresa e poi centrarla è una buona anticamera per il titolo».

 

 


Le piace il calcio di oggi? 
«Quello di Gasperini, sì. Fondare una squadra sui giovani, su acquisti mirati e intelligenti e trovarsi sempre al top è l’unico modo per restare in equilibrio nel calcio di oggi. In questo, Percassi sta dando una bella lezione a tutti».
Lo sa che l’almanacco del calcio la considera una delle tre-quattro ali destre più forti del nostro calcio? 
«Penso di esserne conscio. Fu una mia punizione a pareggiare miracolosamente la prima finale dell’Europeo del 1968 e a portare l’Italia a giocare e vincere la ripetizione, a Roma».
Anche in Messico lei fu decisivo, e in due occasioni... 
«Un mio tiraccio ci fece vincere al debutto contro la Svezia, un altro sistemò la sfida con il Messico nei quarti».
Rimpianti, grande Domingo? 
«Uno solo: mi fecero fuori prima dei mondiali 1974, ma avevo dato tutto alla patria per anni. Nessuno ha corso come me per la nazionale».

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