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Valentina Petrillo, la trans paralimpica e le sue strane tesi

Giovanni Sallusti
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Il baricentro è e deve essere l’individuo, segniamo subito questo punto fermo, altrimenti la botola degli opposti ideologismi è a un passo. E la traiettoria individuale di Valentina Petrillo, 51enne napoletana, prima atleta transgender a partecipare alle Paralimpiadi, non va né decantata (anzi, le consigliamo di guardarsi dagli amici, o più facilmente compagni, interessati) né ovviamente stroncata. Va semplicemente rispettata in quanto espressione singola irripetibile (il singolo è sempre “quel” singolo, diceva Sören Kierkegaard). Anche perché si è trattato di tutto, tranne che di un percorso semplice: a 14 anni, quando si chiamava ancora Fabrizio, le viene diagnosticata la sindrome di Stargardt, un nemico oscuro sotto forma di malattia rara della retina, che porta a una grave ipovisione. Poi, nel 2017, il coming out e l’avvio della “transizione di genere”. Ai campionati italiani paralimpici di atletica leggera del 2020 Valentina partecipa perla prima volta nella categoria femminile. Prima della transizione, da giovane era stata nel giro della nazionale di calcio a 5 per ciechi, dopodiché aveva vinto ben 11 titoli nazionali di atletica maschile.

E qui si moltiplicano le domande, non per qualche tic reazionario, ma per un’evidenza esistenziale. L’individuo umano non è l’atomo, la vita non è un laboratorio, la libertà di Valentina, e di chiunque, è assoluta finché sta al di qua di un confine invalicabile: la libertà altrui. Per esempio, la libertà di concorrere lealmente in pari condizioni di partenza, di giocarsela. È, in fondo, la distinzione antichissima tra liberalismo e anarchia: la libertà può determinarsi ovunque, non può divorare se stessa. La domanda inaggirabile, allora, diventa: e tutti gli altri individui, tutte le altre atlete paralimpiche che in questi giorni a Parigi inseguono l’occasione della vita? Sono tutelate, nella loro libertà inviolabile, o ricadono nel paradosso indicato ancora recentemente dalla scrittrice J. K. Rowling (una femminista di sinistra, non un caporedattore di Libero), per cui «comunque si identifichino, gli uomini mantengono i loro vantaggi di velocità e forza», ragione per la quale «i diritti delle ragazze e delle donne sono più importanti del desiderio di convalida di questi uomini?».

 

 

 

È l’unica domanda che Repubblica non ha fatto a Valentina, nell’intervista a tutta pagina che le ha dedicato due giorni fa. In compenso, l’intervistatore le ha rivolto il quesito telefonato «la politica sta facendo abbastanza sul fronte dei diritti?», ottenendo la risposta telefonatissima: «Sta facendo passi indietro». Alla Petrillo non va giù che «il governo Meloni ha messo nel mirino i farmaci che permettono la transizione in età adolescenziale», come se la cautela sul genere ridotto prematuramente ad abito prêt-à-porter (non sono pochi, per inciso, i casi documentati di pentimento successivo) fosse pari all’omofobia assassina degli ayatollah iraniani.

Sono le semplificazioni a cui si va incontro quando si erige un’atleta transgender con una storia densa, in quanto tale, a una filosofa del diritto, solo per arruolarla nell’antimelonismo di giornata. No scusate, il tema va un po’ oltre le ubbie del giornale/partito. Attecchisce ad esempio in Spagna, dove l’avvocata Irene Aguiar, specializzata in diritto sportivo internazionale, ha accusato Petrillo di aver «rubato» il posto alla sua cliente, l’atleta spagnola Melani Berges, arrivata otto centesimi di secondo indietro nelle qualificazioni, pur avendo 20 anni di meno (particolare difficilmente derubricabile a dettaglio).

Ma è un déjà-vu: l’anno scorso, ai campionati nazionali di Ancona, Valentina inanellò medaglie d’oro e tempi record. Molte velociste concorrenti, pur dichiarando di rispettare profondamente il percorso di vita della vincitrice, denunciarono lo squilibrio innato in una competizione con un’atleta dotata di «struttura fisica maschile», come raccontò dettagliatamente il sito Feminist Post, non un organo cripto-fascista.

 

 

 

La realtà, cara Valentina, è sempre più complessa del bigino Wokista. Ad esempio, tu a Repubblica hai detto che «se fosse stato approvato il ddl Zan, oggi mi sentirei al sicuro». Io, pensa, tutto il contrario: a legge arcobaleno vigente, questo pezzo non potrebbe essere stato scritto, oppure il suo autore rischierebbe di essere tradotto in ceppi. Non ci sono libertà che valgono più di altre, né domande che non si possono fare. Ripetiamo la nostra: sarà competizione equa? Dubitiamo, finché è consentito.

 

 

 

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