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Genova, la mamma suicida dal balcone e l'ombra della Sharia: orrore islamico in casa

di Simone Di Meo sabato 11 gennaio 2025

3' di lettura

Potrebbe essere rimasta vittima della legge della sharia la giovane mamma che, quattro giorni fa, si è tolta la vita lanciandosi dal balcone della sua casa a Sampierdarena, a Genova: Elira (nome di fantasia) non avrebbe sopportato il clima asfissiante e il rischio di radicalizzazione dei quattro figli messi in atto dall'ex marito, anche lui di origine albanese.

La Procura del capoluogo ligure ha aperto un fascicolo, per ora contro ignoti, ipotizzando l'istigazione al suicidio: nei prossimi giorni, le indagini affidate al pm Luca Monteverde entreranno nel vivo con una serie di interrogatori finalizzati a tracciare i contorni di una famiglia in disfacimento. Sarà sentita la sorella della suicida, anche lei gettatasi in quegli istanti drammatici nel vuoto ma sopravvissuta, miracolosamente, all'impatto con l'asfalto.

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Appena i medici la riterranno in grado di affrontare le domande del magistrato, Mirjeta dovrà tentare di spiegare che cosa abbia sconvolto la congiunta fino alle estreme conseguenze. Libero ha avuto modo di raccogliere le confessioni di soggetti che con Elira avevano parlato nelle ultime settimane: la povera mamma, a quanto pare, era ossessionata all'idea che i piccoli nati dal rapporto con l'ex compagno (di 2, 4, 6 e 8 anni) potessero diventare soggetti radicalizzati e violenti. D’altronde erano state proprio le due donne a parlarne nel corso del processo conclusosi con la condanna a quattro mesi di reclusione a carico dell'uomo per sequestro di persona (le aveva chiuse in casa per andare a pregare nella moschea di Via Castelli, già monitorata dall'antiterrorismo).

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Mirjeta aveva riferito agli inquirenti che il cognato, di professione muratore, «era appartenente a un gruppo radicale nato in Arabia Saudita, denominato gruppo salafita» che predicava la totale sottomissione della donna, a cui non è concessa alcuna attività extra domestica: «Non può e non deve fare nulla, nemmeno ridere», si legge nella testimonianza allegata agli atti del procedimento. La moglie, invece, aveva spiegato che Arben «era cambiato [...] dopo aver incontrato certi amici “radicali”», soprattutto a seguito di due viaggi: uno in Svizzera e l'altro a Ryad. Era diventato irascibile e intollerante perché, ipotizzava la donna, «si sentiva più forte, in conseguenza dell'appoggio di questi amici estremisti» che la vittima riteneva «davvero pericolosi», perché «in grado di fare tutto».

Dopo la condanna in primo grado, era arrivata la separazione dei due e le prime difficoltà economiche di lei che temeva l'affidamento dei figli ad Arben o alla sua famiglia (entrambi provengono dalla provincia di Kukes, al confine tra Albania e Kosovo), finanziariamente più solidi.

«L'ultima volta che l'ho sentita», dice una fonte al nostro giornale che preferisce restare anonima, «mi aveva riferito che aveva presentato un'altra denuncia contro l'ex marito». L'esposto si era poi trasformato in un fascicolo affidato al sostituto procuratore Luca Scorza Azzarà della sezione «tutela fasce deboli». Arben era stato quindi destinatario di un provvedimento cautelare di divieto di avvicinamento alla casa familiare. Luogo da cui era rimasto effettivamente lontano come dimostrano i primi rilievi dopo il suicidio di Elira: Arben si trovava dall'altra parte della città, in quel momento. Toccherà ora capire se i due si siano sentiti o scritti tramite sms (lui le aveva bloccato Whatsapp) e che cosa, eventualmente, si siano detti di tanto sconvolgente.

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