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Giorgia Meloni sui migranti: "Ora basta", sinistra inchiodata

Il premier spiega la lettera sui migranti scritta coi leader Ue. E Antonio Tajani predica "pazienza" su dazi e negoziati di pace
di Fausto Carioti sabato 24 maggio 2025

3' di lettura

La strada che dovrebbe portare ai negoziati tra Russia e Ucraina è ancora bloccata dal niet di Mosca. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ieri ha definito «irrealistica» l’ipotesi che quei colloqui si tengano in Vaticano, come sperano invece Leone XIV, Giorgia Meloni e i leader europei che nei giorni scorsi, assieme a lei, si sono consultati con Donald Trump. La solita partita a scacchi di Vladimir Putin, insomma, che così vuole mostrare di non avere fretta di sedersi al tavolo con Volodymyr Zelensky. Quanto ai colloqui riguardanti i dazi tra Usa e Ue, il presidente americano si è detto insoddisfatto delle proposte di Bruxelles e ha avvertito che potrebbe introdurre nuove barriere commerciali già il primo giugno. «Nervi freddi e bocche cucite», dunque, è l’imperativo del governo italiano, che continua a lavorare per evitare che tutto finisca nel modo peggiore. Antonio Tajani, in visita a Città del Messico, commenta che in ogni caso non sarebbe saggio esporre «la Santa Sede e il Santo Padre a un colloquio interlocutorio»: meglio lasciare che il Vaticano, semmai, sia «il luogo dove si concludono gli accordi». Avverte anche che nelle trattative con Washington occorre «avere pazienza» ed essere «certosini e determinati». Il ministro, che mantiene un filo diretto col segretario di Stato Marco Rubio, ieri lo ha ripetuto al commissario Ue per il Commercio, Maros Sefcovic: «Gli ho ribadito la necessità di un accordo che consenta di evitare una guerra commerciale, per avere un mutuo vantaggio». Il sospetto che Trump alzi la tensione per avere più potere di negoziazione è forte, anche perché questo rientra nel suo modus operandi.

L’altro dossier internazionale sul tavolo della premier è il fronte europeo contro l’immigrazione irregolare, sul quale i progressi si vedono. Giovedì, otto capi di governo (due appartenenti al gruppo dei Conservatori Ue, quattro al Ppe, uno ai liberali di Renew Europe e uno, la danese Mette Frederiksen, ai Socialisti) hanno firmato insieme a Meloni una lettera in cui criticano l’operato della Corte europea dei diritti dell’uomo e chiedono che le nazioni abbiano più autonomia nell’espellere gli stranieri condannati per crimini. La conferma che le posizioni di Roma sono condivise da altri governi, anche schierati a sinistra. Così la presidente del consiglio ieri è tornata sulla questione, con un intervento sul social network X, per spiegare direttamente agli italiani il senso dell’iniziativa. Il motivo di quella lettera «chiara e coraggiosa», scrive, è che «abbiamo il dovere di difendere i nostri cittadini, i nostri valori, la nostra democrazia», e «troppo spesso» accade che «la Convenzione europea dei diritti dell’uomo viene interpretata in modo da impedire agli Stati di espellere criminali stranieri o di proteggere i propri confini». Questo, avvisa, «non possiamo accettarlo». Perciò, lei e gli altri otto chiedono che i governi nazionali abbiano più potere per decidere quando espellere gli stranieri che hanno commesso reati e più «libertà di controllo» su chi non può essere rimpatriato. Rivolgendosi chiaramente alla sinistra italiana e a una certa magistratura, dice: «Basta strumentalizzare i diritti come arma contro le nostre frontiere». La premier conclude rivendicando la centralità del suo governo nella partita europea contro l’immigrazione illegale: «L’Italia c’è e guida questo cambiamento».

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E proprio su questo terreno, l’esecutivo ieri ha incassato una vittoria davanti alla Corte Costituzionale, contro il tribunale di sorveglianza di Palermo. I magistrati siciliani avevano sollevato la questione della norma del 1998 che consente al magistrato di sorveglianza di espellere, anche senza il consenso dell’interessato, lo straniero, privo di permesso di soggiorno, al quale resti da scontare una pena inferiore ai due anni per reati non di particolare gravità. Un tunisino che si trova in questa situazione, recluso all’Ucciardone, si è opposto al decreto di espulsione emesso nel settembre del 2023. Secondo il giudice che si è rivolto alla Consulta, se quest’uomo fosse espulso, anziché mantenuto in carcere, «verrebbe sradicato in via automatica dal percorso di rieducazione e reinserimento sociale». Tramite l’avvocatura, la presidenza del consiglio si è opposta, e la Consulta le ha dato ragione, spiegando che l’espulsione è un atto amministrativo non automatico, giacché richiede la valutazione discrezionale del magistrato, e colpirebbe comunque lo straniero al termine dell’esecuzione della pena. Quindi non può essere equiparata alle misure alternative alla detenzione, che invece - queste sì - devono essere «finalizzate alla rieducazione e risocializzazione del condannato».

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