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Le due facce di Trump: statista all'estero, rissoso e autolesionista in Patria

Glauco Maggi
Glauco Maggi

Giornalista a NYC per Libero, autore di Figli&Soldi (2008), Obama Dimezzato (2011), Guadagnare con la crisi (2013), Trump Uno di Noi (2016). Politica ed economia. Autori preferiti: Hayek, M.Friedman, T.Sowell

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Il sondaggio Rasmussen di oggi, che da' a Trump un rating di approvazione del 46%, va preso con le molle. E non solo perche' la media RCP di tutti i sondaggi recenti colloca il presidente al 38,8% di approvazione e al 56,3% di disapprovazione. Martedi' scorso, nelle elezioni per il governatore della Virginia, il Democratico ha battuto il Repubblicano per 9 punti, piu' dei 5 punti con cui Hillary aveva superato Donald un anno fa: agli exit poll, i votanti per il rappresentante DEM hanno dichiarato che la ragione preponderante che li ha portati ai seggi, in numero molto piu' elevato rispetto alla partecipazione Democratica nelle presidenziali del 2016, era la volonta' di testimoniare la loro ostilita' a Trump, punendo il GOP. E questo e' un fatto. La caduta della popolarita' del presidente, che aveva vinto nei collegi elettorali statali nel novembre scorso pur avendo ricevuto quasi 4 milioni di voti in meno a livello nazionale, e' realta' assodata, e il 46% di Rasmussen (che pure era stato il sondaggista a “leggere” meglio l'elettorato un anno fa) non fa primavera. Pero', essendo stato condotto alla fine del lungo viaggio del presidente in Asia, il balzo sicuramente segnala un giudizio piu' favorevole di una certa percentuale (piccola e attenta) dell'opinione pubblica verso il presidente in missione internazionale. Trump ha fatto discorsi apprezzati, ha incontrato i maggiori leader del mondo, da Xi Jinping a Vladimir Putin, da Shenzo Abe ai premier di Sud Corea, Australia e di tutti gli altri paesi, oltre una ventina, ai meeting commerciali dell'APCE e dell'Asean. Ha anche twittato, ma senza fare autogol. Sempre misurato, disciplinato, ragionevole in ogni esternazione. E' stato criticato da sinistra per non aver sollevato la questione dei diritti umani parlando con dittatori di fatto, cioè con i capi di Russia, Cina, Vietnam e Filippine, ma in questo atteggiamento non e' stato poi molto diverso dal cauto Obama (che fece entrare il Dalai Lama dalla porta di servizio alla Casa Bianca). Trump ha sempre avuto in mente l'obiettivo centrale del viaggio, isolare la Corea del Nord e puntare alla denuclearizzazione della penisola coreana, e ha lavorato di fioretto con XI (a cui non ha minacciato clamorose ritorsioni sulle dispute commerciali, ma solo il desiderio di patti in linea con il motto America First) e con Putin (con il quale ha fatto progressi contro l'ISIS e, lo dira' il futuro, magari anche sulla prospettiva di una pacificazione in Siria). In Vietnam, dove la popolarita' sua e degli USA e' altissima, oltre l'80%, il presidente ha mostrato la faccia del “negoziatore in capo”. Il mare del sud della Cina, ha detto, e' una giungla di interessi nazionali tesi tra la Cina e le altre nazioni circostanti, dal Vietnam alle Filippine. “Ci stiamo guardando, e se posso aiutare, mediare o fare da arbitro fatemi sapere”, ha detto Trump domenica in Vietnam. Persino da sinistra sono arrivati riconoscimenti su come ha operato finora. “I liberal sono diventati istintivamente anti-Trump, sempre in cerca di motivi di imbarazzo, di gaffe, e certe volte menano fendenti senza tener conto dei fatti reali”, ha scritto Jeet Heer sulla rivista di sinistra New Republic. “Cio' e' controproducente, specialmente perche' nel suo viaggio in Asia il presidente ha mostrato una destrezza diplomatica mai vista finora e ha dato ragioni per un cauto ottimismo sulla politica USA verso la Corea del Nord e la Cina”. La domanda che si impone, e che riguarda la sorte dei repubblicani alle prossime elezioni di medio termine del 2018, e dello stesso Trump nel 2020, quando cerchera' la conferma per altri 4 anni, e' allora questa. Se Trump e' capace di essere pragmatico e di puntare al risultato quando tratta con avversari dichiarati dell'America, come fa ad essere tanto autolesionista nella gestione dei rapporti politici domestici? Denuclearizzare la Corea e' un obiettivo strategico improbo per evitare una guerra mondiale, e non e' detto che la rete di alleanze e di pressioni messa insieme da Trump lo raggiunga: non dipende solo da lui, e del resto e' da Bill Clinton in poi che i suoi predecessori hanno fallito, rendendo il compito sempre piu' arduo e urgente. Ma usando una frazione dell'intelligenza che ha dimostrato assemblando un team di valore (alla Casa Bianca i ministri della sicurezza e il capo staff sono ex generali, molto rispettati), e ascoltando i loro consigli per preparare la politica internazionale responsabile che ha appena mostrato, questo stesso Trump non avrebbe potuto fare meglio in patria? Per esempio, evitare schermaglie alla rinfusa e una frattura seria con John McCain e con altri senatori repubblicani che si metteranno di traverso quando si trattera' di votare la legge di riforma fiscale? Ed e' vero che la stampa mainstream lo odia, ma odiava anche Reagan, per non parlare di George Bush. Eppure il presidente texano che fece l'impopolare guerra in Iraq riusci' ad essere rieletto, e precipito' nel rating solo al settimo anno di Casa Bianca, non al primo. E' innegabile che Trump ha vinto facendo una rivoluzione politica e reinventando il GOP. Ma dalla stanza ovale conquistata non e' stato capace di sopprimere quella parte di se' che al massimo lo rende oggetto di culto di popolarita' per un solo terzo di americani, e anche meno. Dell'altro 65%, il 45%-50% appare oggi irrecuperabile. Il residuo 15%-20% - indipendenti, centristi, moderati repubblicani, e anche moderati democratici spaventati dal crescente sinistrismo dei nuovi socialisti del DSA (Democratic Socialist of America), di Antifa e di Black Lives Matter - e' conquistabile: non certo dal Trump rissoso, esagerato, strafottente ma, forse, dal Trump statista normale di cui hanno avuto un assaggio da quando e' salito sull' Air One. di Glauco Maggi

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