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Roberto Brazzale spiega come superare il Made in Italy per difendere i nostri prodotti

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Giovanni Ruggiero
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Roberto Brazzale, classe 1962, è il condottiero contemporaneo di una famiglia protagonista del mondo del latte dal 1784. La Brazzale (suoi anche i marchi Verena, Zogi, Gran Moravia, Burro delle Alpi, Alpilatte e Silvo Pastoril) produce burro e formaggi da sette generazioni: agli inizi del Novecento apriva il primo burrificio industriale a Zanè, negli anni Cinquanta fondava il Consorzio del Grana Padano, che Roberto ha deciso di lasciare. Imprenditore fuori dagli schemi, militante e appassionato, sua è l'idea del Gran Moravia, «fratello» del Grana Padano ma parzialmente prodotto in Moravia. Sua quella di esportare le leccornie del food italiano nel mondo, da Shanghai alla Repubblica Ceca (dove la catena «La formaggeria» vende produzioni Brazzale e di altri, dalla pasta Rummo al gorgonzola dop Oioli, in originali punti di vendita e ristoro). Sua l'idea del Silvo Pastoril, rivoluzionario allevamento bovino in Mato Grosso do Sul in Brasile, basato su un ciclo biologico sostenibile che permette livelli altissimi di benessere animale ed efficienza produttiva. Com'è nato il Gran Moravia? «Dal sogno della mia generazione. L'imprenditore deve costantemente ricercare l'ottima combinazione dei fattori produttivi che i suoi tempi offrono. Nel secondo Novecento l'economia era rimasta chiusa e protetta, ma dal 1989 è cambiato tutto: il collasso del comunismo, il Wto, la riforma Pac e l'allargamento Ue hanno aperto un nuovo mondo, straordinarie opportunità. Assurdo continuare a fare il prodotto negli stessi luoghi e modalità. Tornavano accessibili regioni agricole straordinarie come la Moravia, cuore dell'impero asburgico, tanta terra, clima ottimale per le bovine, razze di alta genealogia, foraggi superbi esenti dagli inquinamenti della pianura padana. Perfetta per creare filiere ecosostenibili dove i formaggi della nostra tradizione riuscissero migliori e più convenienti. Progetti impossibili in Italia dove l'agricoltura era già sofferente, il territorio sovraccarico, limitato da urbanizzazione e orografia. Semplicemente abbiamo colto la meravigliosa occasione offerta dalla Storia, come ai nostri nonni aveva offerto la creazione del Grana Padano. Per farlo, abbiamo superato la logica dei prodotti dop, circoscritta al territorio tipico ed ormai limitativa. Le materie prime riescono anche altrove e meglio, ed il valore distintivo del food italiano non sta in quelle ma nella loro trasformazione, il cui potenziale occupazionale è enormemente superiore a quello offerto dalla sola produzione agricola nazionale, fortemente deficitaria». Tu, per il tuo Gran Moravia, produci tu stesso il latte in Moravia. «Sì, abbiamo realizzato una filiera verde di ottanta fattorie, e costruito un grande caseificio tradizionale da grana. Il latte è superlativo. Dopo lunghe ricerche ed esperienze abbiamo scelto la Moravia perché, tra Austria e Germania, ha una cultura zootecnica eccellente, germanica. Avuta subito la conferma che il formaggio usciva migliore e più conveniente del Grana Padano che facevamo in Italia, abbiamo fermato quella produzione e sviluppato il Gran Moravia. Ma i dipendenti in Italia sono raddoppiati per gestire stagionatura, confezionamento e vendita del nuovo prodotto esportato nel mondo, elevando gli standard professionali». In più, commercializzi anche lì, non solo il Gran Moravia. «In Repubblica Ceca il comunismo aveva azzerato la grande tradizione commerciale, così abbiamo sviluppato una catena al dettaglio di alimenti per la cucina italiana. Oggi sono diciotto negozi con vendita servita al banco, un milione e mezzo di clienti l'anno, 150 dipendenti, il 75% dei prodotti viene dall'Italia: formaggi, pasta, olio, vini, salumi. Il mondo si è aperto in tutte le direzioni e si possono fare cose stupende. Abbiamo sofferto la Cortina di Ferro, ma oggi la nostra generazione è la più fortunata di sempre». La tua sembra la ricerca di una forma mentis imprenditoriale nuova: portare avanti la tradizione ma andando oltre il marchio dop o il Consorzio del Grana Padano, dal quale, dopo che la tua famiglia lo fondò, tu sei uscito. «La tradizione è ciò che facciamo noi, è processo, la dop è istituzione, corporazione, che limita l'iniziativa individuale in cambio di protezione al reddito agricolo. Per noi fare impresa è libertà e responsabilità, il consumatore unico giudice e fine. Tradizione è scartare il peggio e prendere il meglio, in ogni momento. Anche i prodotti dop sono nati in un certo momento storico, anche molto recente, prima non c'erano o erano diversi; oggi sono statici, ma la loro evoluzione e il loro miglioramento qualitativo, fino all'avvento delle dop, è stato continuo, e l'evoluzione era anche geografica. Negli anni 50 i nostri nonni si spostarono per fare il grana nelle praterie attorno a Vicenza, dove nessuno lo conosceva, fondando poi il Consorzio del Grana Padano e la doc. Da sempre la nostra famiglia si sposta dove ci sono le condizioni migliori per produrre. Gli antenati portarono l'azienda dall'altopiano di Asiago a Thiene nell'800. Quaranta chilometri, allora, erano come quattromila di oggi. Ora tutto il mondo è diventato accessibile: un'estensione di cui anche noi italiani potremmo essere protagonisti se ci riuscisse un cambio di marcia culturale. Ritenere che fuori dalle zone tipiche gli italiani non possano fare cose buone è soltanto la versione interessata di chi possiede la terra, una gabbia protezionista che frena lo sviluppo del Paese, toglie lavoro ai giovani, rende i prodotti più costosi al consumo». Tu non ami il concetto attuale di made in Italy. «Il made in Italy in purezza, come propinato oggi al consumatore, non esiste, perciò è ingannevole. È tale il formaggio prodotto in Italia con latte prodotto in Italia? Ma da dove vengono le materie prime agricole per produrre quel latte? Da Usa e Brasile? E le tecnologie di mungitura, i trattori, le cisterne, le sementi? E di che nazionalità sono i mungitori, i casari, i magazzinieri? Se il made in Italy è solo quanto fatto entro i confini della Repubblica, anche una tunica di seta col dragone di un laboratorio cinese clandestino di Prato lo è, mentre un formaggio fatto da un'antica famiglia di casari di Caserta con ottimo latte tedesco non lo è. Il concetto va evoluto valorizzando il made by italians, cioè il fattore umano e culturale anche se la materia prima è straniera, rispetto al made in Italy. Ne avrebbe molto da guadagnare anche quest'ultimo». Tu superi anche l'Europa, perché parte della tua produzione è in Brasile. «Il Brasile è ideale per le filiere bovine da carne. Il campo da calcio dell'imprenditore oggi coincide con il mondo e l'Italia si sta condannando alla marginalizzazione per un'idea autolesionistica di tradizione ed italianità». Gemma Gaetani

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