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La Thatcher ci lascia soli con l'euroincubo Merkel

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Burocrati al potere, Stati a sovranità limitata, Germania egemone: viviamo le peggiori profezie della Lady di Ferro

Andrea Tempestini
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di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Lo so, la storia non si fa con i se e con i ma. Ciononostante è utile domandarsi che Europa sarebbe stata la nostra se il 22 novembre di 23 anni fa Margaret Thatcher  - morta ieri all'età di 87 anni - non si fosse dimessa. Sarebbe stata la stessa, schiacciata sotto il tallone della Germania della Merkel, con la moneta unica, il patto di stabilità e tutto il resto che oggi ci affama? Probabilmente no. Se una rivolta interna al suo partito non avesse indotto la Lady di ferro a dimettersi, nella convinzione di molti conservatori che sbarazzandosi  di lei il partito avrebbe battuto i laburisti («Un vile atto di tradimento», lo definì la figlia ), è quasi certo che non avremmo la Ue così come ora la conosciamo.  La donna che piegò l'esercito argentino, sconfiggendolo nella battaglia delle  Falklands; che annientò il potente sindacato dei minatori e il suo leader Arthur Scargill; che riuscì a battere anni di luoghi comuni tenuti a battesimo dall'industria assistita, da gran parte del mondo accademico, dalla Chiesa e dalle Trade Unions, bene quella signora che pareva una vecchia zia un po' fuori moda, probabilmente un'Europa come quella che adesso viviamo non l'avrebbe mai fatta passare.  Per lei il federalismo di Maastricht era essenzialmente figlio della dottrina socialista, cioè di qualcosa che lei nei lunghi anni trascorsi a Downing Street aveva sempre combattuto, giudicandolo un male per il proprio Paese.  Figuriamoci dunque se, una volta fattolo uscire dalla porta, avrebbe accettato che questo rientrasse dalla finestra sotto forma di un'Europa guidata da una banda di tecnocrati armati di righello e calcolatrice. Altro che misurare la lunghezza delle banane e calcolare se il patto di stabilità era stato sforato dello 0,1 %. Con lei non saremmo stati a discutere se era giusto rimborsare le aziende, rimettendoci al giudizio di Bruxelles. Lei i mezzemaniche del Parlamento europeo e quelli della Ue li avrebbe direttamente spediti a quel paese, cioè in Unione Sovietica, anche se quando si lasciò alle spalle l'incarico di primo ministro l'impero del male si era già squagliato. Del resto, per capire cosa ne pensasse dell' Unione europea e della moneta unica, è sufficiente rileggersi certi discorsi. Nell'ultimo tenuto alla Camera dei Comuni il giorno dell'addio al governo, rivolgendosi pur senza nominarli ai laburisti, disse:  «Vogliono una moneta unica?  Sono pronti a difendere i diritti di questo Parlamento del Regno Unito? Per loro il tutto si risolve nel  trovare un compromesso, spazzare via i problemi sotto il tappeto, rimandarli a domani, nella speranza che il proprio popolo di Gran Bretagna non si accorga di quello che sta capitando, di come i poteri gli stanno poco a poco sfuggendo».  Più di vent'anni fa, quella che a prima vista appariva come un'anziana zitella in grado di trascorrere il proprio tempo fra un charity party e un the alle cinque, in realtà aveva capito tutto. L'euro era di là da venire e sarebbe arrivato più di dieci anni dopo, ma per la Thatcher la moneta unica equivaleva a una perdita di controllo della sovranità di un Paese. A lei non piaceva affatto il gretto europeismo di certi federalisti, una specie di credo fideistico. L'Europa la voleva unita, mica morta o privata della sua anima. Per questo una volta, da Washington, disse ai suoi interlocutori  che qualcuno voleva affidare alla Comunità europea una falsa missione, trasformando la Ue negli Stati Uniti d'Europa. «Un'Europa  in cui le singole nazioni, ciascuna con la sua viva democrazia, finirebbero subordinate entro una struttura federale artificiale che non potrà che essere burocratica. Una comunità priva di una lingua comune non può avere una pubblica opinione  nei cui confronti siano responsabili». Ciò a cui molti altri sono arrivati con vent'anni di ritardo, la Lady di ferro lo aveva già immaginato  e, ahinoi,  inutilmente combattuto. L'Europa che Margaret Thatcher non voleva purtroppo è proprio quella che abbiamo avuto e dentro la quale, per colpa della miopia di molti nostri governanti, Romano Prodi tra i primi,  oggi   ci dibattiamo come volatili in una gabbia. La signora dai capelli rossi non era una conformista e le idee che andavano per la maggiore non la convincevano, per questo quando il 4 maggio del 1979 arrivò a Downing Street, invece delle solite promesse, al Paese somministrò una medicina amara. Usando le parole del poverello di Assisi e parlando di concordia, in realtà invitò gli inglesi ad arricchirsi e il suo governo fece di tutto per consentire ai sudditi di Sua Maestà di raggiungere l'obiettivo. All'epoca il Regno Unito era avviato a un rapido declino, ma con la Thatcher l'industria tornò a correre e a guadagnare. Grazie alla riduzione delle tasse crebbe il capitalismo popolare del ceto medio, quasi un milione e mezzo di persone riuscì a comprarsi una casa e più di dieci milioni guadagnarono con le azioni dopo che la liberalizzazione valutaria trasformò Londra in un'appetibile piazza finanziaria internazionale.  Tagliò i sussidi, sconfisse il sindacato e disse apertamente che le imprese che non erano in grado di competere col mercato avrebbero chiuso. All'inizio non furono rose e fiori e anzi a molti sembrò che presto la Lady di Ferro avrebbe avuto molto tempo per curare il giardino. I consensi infatti erano in calo e i disoccupati in aumento, ma nonostante le critiche dell'establishment, della Chiesa Anglicana e perfino dei più autorevoli giornali (dall'Economist al Times ) lei non cambiò linea, applicando testardamente la legge di Tina: «There Is No Alternative», non ci sono alternative. In capo a qualche anno si capì che la sua ricetta era quella giusta e dei vantaggi di quella che ella stessa definì una lotta del bene contro il male, cioè il socialismo, la Gran Bretagna gode ancora i frutti. Purtroppo per noi, dicevo, Margaret Thatcher uscì di scena prima di portare a compimento la sua opera. E peggio per noi italiani, di Lady o uomini di ferro da noi non ne abbiamo avuti mai e se ci sono stati – come Craxi o Berlusconi – li abbiamo avversati in tutti i modi, mandandoli in esilio o sognando di spedirli al gabbio. All'inizio qualcuno si era immaginato che Mario Monti potesse essere una Thatcher con il loden, ma ben presto si è dovuto ricredere: l'ex rettore della Bocconi neanche con la borsetta in mano potrebbe assomigliare alla Iron Lady.  Lui al massimo sembra John Major, cioè il conservatore che la sostituì a Downing Street per consegnare di lì a poco il Regno Unito ai laburisti. Stessa flemma, stessa inconcludenza: anche lui è destinato a farsi dimenticare.  

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