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Pansa: Senza Berlusconi, il 25 aprile è più vuoto (e senza verità)

Giulio Bucchi
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Venerdì 25 aprile i lettori del Corriere della sera saranno rimasti a bocca aperta nello sfogliare il loro giornale. Una volta superata la metà del numero, hanno trovato una pagina intera di pubblicità, dominata da un grande fiore rosso. Una novità assoluta, non soltanto per il quotidiano di via Solferino, ma per l'intera stampa italiana. Il soggetto dell'«avviso a pagamento», come chiariva un distico quasi invisibile, non era un nuovo aggeggio informatico o un'automobile in grado di viaggiare senza carburante. No, il paginone ricordava un episodio oscuro della Resistenza in Romagna: la morte del comandante «Libero», Riccardo Fedel, ucciso nel maggio 1944. È una storia che conosco bene, per averla ascoltata qualche anno fa da un avvocato penalista di Forlì, Natale Graziani, oggi ancora sulla breccia alla bella età di 92 anni. Il legale ne aveva scritto su una rassegna locale, «Studi romagnoli». E me la raccontò con generosità affinché la riassumessi in uno dei miei libri revisionisti. Fedel, nato a Gorizia nel 1906, era un libertario di sinistra e aveva costituito una brigata sull'Appennino romagnolo-toscano. Come altri comandanti partigiani, non voleva stare agli ordini dei comunisti. La sua indipendenza gli costò la vita. Venne condannato a morte dal Pci e fucilato di nascosto nel maggio 1944. Fu un'esecuzione immotivata e crudele. I boia rossi che lo uccisero non dissero mai dove avevano sepolto il corpo. La pagina a pagamento sul Corriere della sera era un'iniziativa della «Fondazione Riccardo Fedel - Comandante Libero», decisa nel settantesimo anniversario dell'esecuzione, un caso frequente di fuoco amico, si fa per dire. Lo spazio a disposizione era molto, ma la tragedia di Fedel veniva ricordata soltanto in un parentesi laconica che spiegava: la sua uccisione è «purtroppo avvenuta per mano partigiana». Mancava insomma il dettaglio politico più importante: i partigiani in questione erano comunisti. E della specie più dura: i cosiddetti spagnoli, reduci dalla guerra civile in Spagna. Uno di loro, descritto con ampiezza nel mio libro e indicato con nome e cognome, aveva fatto ammazzare Libero per prendere il comando della sua banda. L'insolita pagina a pagamento del Corriere mi conferma una verità vecchia quanto il mondo: la storia è una talpa che scava sottoterra con pazienza e, prima o poi, viene alla luce. Se qualcuno si prova a fermarla o finge di non vederla, la storia si vendica. E non esiste celebrazione, anniversario, festa nazionale, nonché presenza delle autorità, che restituisca vigore a una data ormai incapace di scuotere l'animo della gente e spingerla a ricordare. Questo 25 aprile ha visto quasi dappertutto piazze vuote o semivuote, se le confrontiamo con quelle di qualche anno fa. Anche i politici o i sindacalisti incaricati di parlare dai palchi venivano dalle seconde o terze file. L'anniversario della liberazione è stato celebrato abbastanza in sordina. E il Bestiario pensa di sapere il perché. Da anni il 25 aprile era diventata la festa del Pci e della Cgil. Nella Prima e nella Seconda repubblica, i comunisti si erano dimostrati tanto astuti da convincere la gente che loro erano stati gli unici protagonisti della Resistenza. Non era così, anche se le Brigate Garibaldi risultavano più numerose delle formazioni di altri partiti. Si era imposto un paradosso: chi non aveva portato il fazzoletto rosso, non era degno di dichiararsi partigiano. E in proposito ho un ricordo che descrive il clima di fanatismo politico di certe feste non più tricolori, ma rossastre. Milano, 25 aprile 2006, piazza del Duomo. Arriva la candidata sindaco Letizia Moratti, già ministro di un governo Berlusconi. Spinge una carrozzina dove sta seduto suo padre, Paolo Brichetto, partigiano della Franchi, l'organizzazione di Edgardo Sogno, uno dei protagonisti della Resistenza. Il papà della Moratti era stato un combattente coraggioso, i tedeschi l'avevano deportato nel campo di sterminio di Dachau, un inferno da dove era riuscito a tornare. La signora Moratti e il padre vengono accolti con una tempesta di insulti, ingiurie, fischi. Non possono partecipare al corteo e sono costretti ad andarsene. Fu in quell'anno che cominciò l'usanza volgare di fischiare le bandiere della Brigata Ebraica. I fischiatori non erano nazisti, ma comunisti ultrà. E soprattutto ignoranti. Non sapevano nulla di quel reparto che dal novembre 1944 aveva partecipato alla campagna di guerra in Italia e dunque ci aveva liberato. Erano cinquemila uomini, provenienti da più di cinquanta Paesi, al comando del generale canadese Ernest Frank Benjamin, ebreo come quasi tutti i soldati e gli ufficiali della Brigata. Ebbe molti caduti che oggi riposano nel cimitero militare di Piangipane, una frazione di Ravenna. Anche venerdì, a Roma, i cialtroni che pensano di stare dalla parte dei palestinesi hanno tentato di insozzare le sue bandiere. Ma quale era il motivo primario che un tempo incendiava le piazze rosse del 25 aprile? Era la presenza di un avversario come Silvio Berlusconi, il nemico giurato dell'antifascismo, il campione di una destra totalitaria per niente diversa dal regime di Salò. La battaglia contro di lui funzionava da viagra di una sinistra avviata al declino. Tutto serviva a tenerla in vita, persino la Resistenza, anzi la Nuova Resistenza. Oggi il Cavaliere è un vecchio signore pieno di acciacchi politici. Inutile mobilitarsi contro di lui. Per di più la sinistra sta al governo. Ed ecco perché le piazze del 25 aprile languono. L'altro motivo è la mancanza di verità sulla guerra civile. Sappiamo tutto di quanto è accaduto in Italia fra il 1943 e il 1945. A cominciare dal fatto che le guerre interne sono come le malattie mentali e si finisce per combattere contro se stessi. Le Resistenze sono state più di una e molto diverse fra loro. Quella comunista voleva che la lotta al fascismo e al nazismo fosse soltanto il primo passo di una rivoluzione rossa che avrebbe fatto dell'Italia un paese satellite dell'Unione sovietica. A fermare Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia fu il compagno Giuseppe Stalin. Lui sapeva che il patto di Yalta con gli angloamericani non gli consentiva di fare del nostro Paese un'altra Grecia, dove i comunisti ellenici avevano iniziato una rivoluzione sanguinosa, destinata alla sconfitta. La mancanza della verità ha sempre una conseguenza terribile: l'ignoranza e l'indifferenza delle generazioni più giovani. Mi ha colpito un articolo di Alessandro Ferrucci, del Fatto quotidiano. Ha girato per le strade di Roma, interrogando sul 25 aprile i giovani che incontrava. Le risposte che ha ricevuto sono terrificanti. Al di là della nostra porta di casa, esiste un mondo di ragazzi che non sanno nulla e non vogliono sapere nulla della storia del loro Paese. E sono pronti a diventare cavie di qualunque esperimento politico. Un lettore del Bestiario potrebbe osservarmi: caro Pansa, perché ti stupisci? Questa è la vita. Nessun mito dura nel tempo e supera il trascorrere degli anni. Non esiste un pensiero, un'idea, una storia capace di non tramontare mai. Forse ce n'è una soltanto: la religione. Adesso capisco perché papa Bergoglio è un gigante costruito nel granito. Forse sarà meglio riscoprire le nostre origini cattoliche, di quando ero anch'io un chierichetto del Duomo di Casale Monferrato, agli ordini di un vescovo d'acciaio: monsignor Giuseppe Agrisani. E mettersi al riparo del signore vestito di bianco che ha la forza di telefonare a Marco Pannella e ordinargli: smettila di fare lo sciopero della sete! di Giampaolo Pansa

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