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La vedova di Marco Biagi: "Scajola? Non solo lui..."

Andrea Tempestini
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Marina Orlandi, la vedova di Marco Biagi, in dodici anni ha rilasciato pochissime dichiarazioni ufficiali, ma dentro di sé ha sopportato in silenzio lo scaricabarile delle istituzioni, incapaci di difendere le idee e la vita di suo marito. Ora, più di 4mila giorni dopo la morte del giuslavorista, i pm di Bologna sembrano aver individuato il capro espiatorio di quel sacrificio: l'ex ministro Claudio Scajola, colpevole di non aver assegnato d'imperio a Biagi, quattro giorni prima della sua fine, quella scorta che tre Comitati per l'ordine e la sicurezza gli avevano revocato nell'autunno 2001. La nuova prova contro il ministro sarebbero due telefonate, tra cui quella del sottosegretario al Welfare Maurizio Sacconi, così riassunta dal segretario di Scajola Luciano Zocchi: «L'onorevole Sacconi ti segnala l'opportunità di rafforzare la tutela soprattutto del Prof. Marco Biagi, consulente del ministro Maroni, “successore” di Tarantelli, D'Antona ecc…». E però che l'allarme fosse arrivato ai vertici dello Stato si sapeva da tempo. «Queste cose sono state sempre dette dappertutto, evidentemente fa comodo…». La frase di Marina Orlandi s'interrompe. Forse vorrebbe dire: fa comodo farle uscire ora. Ma, coerente con il suo stile, non dice. La sua non è un'intervista, ma poche frasi di chiarimento per il cronista: «La cosa gravissima è che i servizi avevano denunciato il rischio \[per Marco Biagi, ndr\] mesi prima della sua morte. Se queste cose al ministero del Lavoro le hanno apprese leggendo Panorama è agghiacciante». La signora fa riferimento all'articolo del settimanale della Mondadori che il 15 marzo, in un articolo intitolato «I prossimi obiettivi dei terroristi», aveva denunciato il rischio attentati per il ministro del Welfare Roberto Maroni e per i suoi più stretti collaboratori. Quel giorno Biagi telefona immediatamente ai pochi amici di cui pensa di potersi fidare: chiama Sacconi e Stefano Parisi, direttore del centro studi di Confindustria. I due si rivolgono subito alla segreteria di Scajola. Dodici anni dopo quei tragici giorni, Zocchi svela d'aver inoltrato inutilmente i loro messaggi al ministro. Lo stesso che nel giugno 2002 definì Biagi, a microfoni spenti (o almeno così credeva), «un rompicoglioni». La verità però è più complessa e la morte di Biagi probabilmente non l'ha sulla coscienza un uomo solo, per quanto ex capo del Viminale. Appare troppo semplice e consolatorio accusare Scajola di omicidio per omissione per il solo fatto di non aver ordinato, subito dopo la pubblicazione di Panorama e seduta stante, una scorta per Biagi. Il settimanale riportava la relazione semestrale dei servizi segreti ovvero l'analisi dei rischi eversivi del periodo giugno-dicembre 2001. Al suo interno erano riassunte informative che gli 007 avevano certamente già inviato agli organi preposti. Ma nonostante questo i Comitati per la sicurezza di Milano, Bologna e Modena avevano deciso che Biagi non aveva bisogno di protezione. «Hanno fatto un'inchiesta sulla scorta e alla fine il giudice ha ammesso che c'erano state delle mancanze, che c'era qualcosa contro prefetto e questore, ma non tali da poterli incriminare» continua la vedova Biagi. Dunque la catena di comando che aveva tolto la scorta a Biagi è già finita sotto indagine ed è stata (sbrigativamente?) assolta. «Tutti quanti qui \[a Bologna, ndr\], là a Roma, a destra, a sinistra, tutti si sono adoperati per insabbiare tutto» rimugina Orlandi. La novità è che ora c'è la prova che Scajola, quattro giorni prima della morte di suo marito, era stato informato del problema: «Adesso sappiamo che se Scajola dice che non sapeva chi fosse Marco Biagi mente». L'altro ieri pure l'ex ministro Maroni ha dichiarato di aver vergato personalmente un biglietto su Biagi per l'ex ministro dell'Interno. Marina Orlandi sospira: «Ne prendo atto. A me risultava che dal ministero la sua lettera non fosse partita subito, perché Maroni era andato a festeggiare il suo compleanno, ma che venne inviata il martedì, mentre stavano uccidendo Marco». Quella che emerge in modo lampante è, ancora una volta, la farraginosità della burocrazia. Gli 007 non riescono a comunicare con i ministri e i ministri per parlare tra di loro hanno bisogno di scriversi: «Maroni e Scajola si vedevano tutti i venerdì al Consiglio dei ministri, il fatto che si parli per lettera di una cosa così grave…». Orlandi si interrompe di nuovo. Alla fine nessuno può negare che in quei mesi, tanti, troppi uomini dello Stato avevano lasciato inascoltato il grido di dolore di Biagi. Poco prima della sua morte almeno altri tre giuslavoristi avevano ottenuto la scorta. Scrive Panorama nel marzo 2002: «Una roulette russa. Come definire altrimenti la logica con cui si ottiene oggi una scorta? Esempio: il criterio con cui i comitati provinciali per l'ordine pubblico e la sicurezza di Milano, Bologna e Modena hanno tolto la tutela al professor Marco Biagi, rispettivamente il 19 e il 21 settembre e il 3 ottobre, e concesso, negli ultimi mesi, la protezione a tre professori di diritto e sociologia. Il ruolo dei tre esperti ai quali è stata concessa la scorta? Certamente meno esposto di quello di Biagi, impegnato nelle riforme del lavoro: sono membri della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali». Uno di loro, il professor Giorgio Ghezzi, aveva ottenuto e perso la scorta insieme con Biagi. Gliela tolsero nell'autunno del 2001. Per Repubblica il presidente della Commissione di garanzia Gino Giugni se ne lamentò con Scajola e Ghezzi riottenne la protezione nel febbraio del 2002. In ogni caso, prima che ciò accadesse, passarono diversi mesi e non quattro giorni. di Giacomo Amadori

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