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Berlusconi: "Se mi condannano voglio andare in cella"

Silvio Berlusconi

Maurizio Belpietro
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Silvio Berlusconi non scappa. Alla vigilia della sentenza della Cassazione che potrebbe condannarlo a quattro anni di carcere e a cinque di interdizione dai pubblici uffici, ponendo fine alla sua carriera di leader parlamentare del centrodestra, il Cavaliere si sfoga contro quello che ritiene un disegno politico per eliminarlo, ma al tempo stesso rivela anche le sue intenzioni per il dopo 30 luglio, deciso - come sempre - a non mollare. Comunque vada, e cioè anche se la suprema Corte confermasse il giudizio d'appello e dunque gli spalancasse le porte del carcere, l'ex premier non ha nessuna intenzione di scappare. Nella villa di Arcore, quella dove secondo i giudici si sarebbero tenuti i festini a base di sesso e che ora appare solo una dimora storica piena di quiete e foto di famiglia, ripete senza cedimenti le sue decisioni. «Non farò l'esule, come fu costretto a fare Bettino Craxi. Né accetterò di essere affidato ai servizi sociali, come un criminale che deve essere rieducato. Ho quasi settantotto anni e avrei diritto ai domiciliari, ma se mi condannano - se si assumono questa responsabilità - andrò in carcere». Quella di Berlusconi non è una resa. L'uomo che per vent'anni è stato il protagonista della vita politica italiana non ha la voce incrinata dallo sconforto né le sue parole sono venate dalla rassegnazione.  Tutt'altro. Il capo del Pdl, l'uomo che alle soglie degli ottant'anni immagina di rifondare il partito con il quale debuttò sulla scena politica quasi vent'anni fa, nonostante i colpi subiti e nonostante le incredibili accuse che gli sono piovute addosso negli ultimi anni e le assurde sentenze che gli sono state messe sulle spalle dai giudici, è sereno. «Non ho dormito per un mese. La notte mi svegliavo e guardavo il soffitto, ripensando a quello che mi hanno fatto. In pochi mesi otto pronunciamenti contro di me. I diritti Mediaset, Ruby, la telefonata Fassino-Consorte, gli alimenti alla mia ex moglie, le richieste dei pm di Napoli e Bari, la decisione della Consulta sul legittimo impedimenti, il respingimento della richiesta di trasferire a Brescia il processo per le cene di Arcore, l'abnorme risarcimento a De Benedetti». Probabilmente dimentica qualcosa, ad esempio la decisione improvvisa e inusuale di fissare per il 30 di luglio la discussione del ricorso contro la sentenza per i diritti tv, l'ultimo colpo, quello che potrebbe cacciarlo dal Parlamento. Le tasse pagate - Sono le dieci di sera. Il Cavaliere è appena arrivato da Roma ed è visibilmente stanco per la lunga giornata. Ciononostante appare sereno. Fa caldo e nella vecchia villa di campagna dei Casati Stampa non c'è aria condizionata. Le finestre sono aperte e da lontano si sente la musica di una festa di paese. «Suonano tutte le sere», butta lì Francesca Pascale, la donna che ormai da tempo è a fianco di Berlusconi. Piccole frasi fra una telefonata e l'altra che l'ex premier intrattiene con i suoi uomini, con i figli e la nipote.  Ma appena riabbassata la cornetta il discorso torna lì. Al processo. A dopodomani. Alla possibile sentenza definitiva. «Io sono abbastanza ottimista: non possono condannarmi. I miei avvocati hanno proposto cinquanta obiezioni alla decisione della Corte d'appello e la Cassazione già in altre occasioni ha riconosciuto che io non firmavo i bilanci, non partecipavo alle decisioni dell'azienda e non avevo alcun ruolo diretto nella gestione di Mediaset. Facevo il presidente del Consiglio, cosa ne potevo sapere io dei contratti per i diritti televisivi? Non me ne occupavo quando stavo a Cologno, figurarsi se lo potevo fare nei primi anni Duemila quando ero a Palazzo Chigi». Il Cavaliere riepiloga le tasse pagate nel corso degli anni e quanto piccola sia la cifra che gli imputano di non aver versato al Fisco. «Vi pare che avrei rischiato tutto questo per tre milioni dopo averne corrisposti più di cinquecento in un solo esercizio? E poi, se fossi stato così fesso da evadere le imposte, a un certo punto non avrei usato il condono tombale che il mio stesso governo aveva introdotto? Invece gli avvocati di Mediaset rifiutarono di usufruirne perché erano assolutamente certi che non vi fosse nulla da nascondere». «No, non possono condannarmi», ripete come un mantra. «Se non c'è pregiudizio, se non ci sono pressioni, la Cassazione non può che riconoscere la mia innocenza». Forse teme che qualcuno abbia già oliato la ghigliottina che dovrà tagliargli il capo, ma se lo pensa non ne parla  né lo dà a vedere.  Si dice fiducioso e più preoccupato per la situazione del Paese. Parla dell'Imu e dell'Iva e di quei soldi che non si trovano per abolire l'imposta sulla prima casa e evitare il rincaro di quella che grava sul valore aggiunto.  Troppe tasse, adesso è in arrivo anche un aumento dell'Iva sui prodotti editoriali, dal quattro al ventun per cento: una follia.  Una batosta su un settore già fortemente provato. «Noi abbiamo proposto ben sette modi per trovare il denaro che serve per abbassare le tasse, a cominciare dalla rivalutazione della quota di partecipazione in Banca d'Italia che le banche hanno in portafogli per poche centinaia di migliaia di euro, ma al Pd non va bene niente. Dice no su tutto». Berlusconi è tormentato dalla crisi e sostiene che bisogna fare qualche cosa in tempi rapidi, prima che ci sia il rientro dalle vacanze. Troppi disoccupati, troppo pochi consumi e le aziende scappano all'estero, chi in Romania, chi in Albania. «Mi ha telefonato il nuovo premier di Tirana, un socialista che conosco da anni. Mi dice che ha la fila di imprese italiane che vogliono aprire lì. Ovvio, gli stendono i tappeti rossi: tasse basse, salari al minimo e sindacato che non fa barricate. In più, grazie a Canale 5 e le reti Mediaset che irradiano il segnale anche in Albania, lì tutti parlano e capiscono l'italiano».  Ma non ci sono solo i Paesi dell'Est europeo. Ci sono l'India e il Far East a fare concorrenza. La Siemens ha trasferito quasi tutto a Delhi, tenendo qui solo la manodopera stretta: ma la progettazione, i servizi, la finanza, via, se ne sono andati. «Cosa si può fare per far tornare competitiva l'Italia? Bisogna cambiare tutto. Spiegare agli italiani che serve un governo con un mandato chiaro e per avere un esecutivo che non sia ricattato in continuazione c'è bisogno del 51 per cento». Il futuro del governo -  È un suo vecchio pallino. Parlare agli elettori per chiedere una maggioranza che non possa più essere messa in discussione dagli alleati, dai giudici, dalle manovre di Palazzo. È quasi l'una di notte e il discorso torna lì, alle elezioni. Se condannato, Berlusconi butterà giù il governo e chiederà di tornare alle urne? «Io non farò cadere Letta, ma sarà il suo partito a farlo. Se io venissi condannato, il Pd non accetterebbe mai di continuare a governare insieme con un partito il cui leader è agli arresti e interdetto dai pubblici uffici».  Una pausa e poi aggiunge: «Nonostante tutto, io resto abbastanza ottimista: non possono condannarmi». In quel «Nonostante tutto» c'è la preoccupazione che il brusco anticipo della sentenza nasconda la volontà di una parte della magistratura di farla finita una volta per tutte. Di accorciare i tempi e pronunciare la parola fine. Mancano 48 ore all'ora x. E, a meno di una proroga (ieri circolava voce che alla fine la Cassazione decidesse di spostare tutto ai primi di settembre), martedì sapremo cosa ci attende: se un Berlusconi libero di fare politica e di proporre misure urgenti per l'economia o un Berlusconi in galera e un Paese sull'orlo dell'abisso.  Una cosa però l'altra sera si capiva. Condannato o assolto, il Cavaliere non molla. Non se ne andrà su un'isola deserta per sfuggire a chi gli dà la caccia. Né si farà espellere dalla scena politica con una sentenza. Comunque vada, il 30 luglio la storia del leader politico più istrionico che si sia visto dal dopoguerra ad oggi continuerà. E anche quella del centrodestra. 

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