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Lo scontro nel Pdlrischia di finiredavanti ai giudici

Matteo Legnani
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Ora che il gioco si è fatto duro, che «berlusconiani» e «diversamente berlusconiani» se le suonano di santa ragione, spunta pure la clausola capestro, un comma che rischia di mandare a monte la conta del Consiglio nazionale Pdl. A scovarla sono stati alcuni «lealisti» della Basilicata. In calce al documento fatto girare dagli «innovatori» nella loro regione hanno trovato una postilla sorprendente: due righe per dire che quella firma «annulla» eventuali adesioni ad altri documenti siglate in precedenza. Serve per recuperare consensi in extremis anche tra membri del Consiglio che già avevano aderito al documento berlusconiano, per rendere inefficaci le firme già raccolte ed evitare doppie firme, che sono già almeno quaranta. Avrà come effetto collaterale il caos al momento di fare i conti sabato se non, addirittura, quello di rendere possibile un ricorso alla magistratura nei giorni successivi. Di certo questa mossa dimostra che il livello dello scontro tra le due anime del partito ha raggiunto il punto di non ritorno. «In Lombardia ahimè abbondano falchi e pitonesse». L'ammissione di Roberto Formigoni, protagonista di un nuovo scontro durissimo, stavolta con Mariastella Gelmini, dimostra che gli «innovatori» stanno incontrando più difficoltà di quante ne avevano previste nella raccolta delle firme.  «In Lombardia oltre il 70% dei delegati sta con Berlusconi e Formigoni millanta il 40% delle firme: che tristezza!», attacca l'ex ministro dell'Istruzione. «Non sa fare i conti, povera stella», risponde - poco cavallerescamente - l'ex Governatore. La Regione più ricca d'Italia era tra le poche dove gli alfaniani contavano di essere in vantaggio, ma, evidentemente, non è andata come si aspettava il Celeste. Il trio Gelmini, Paolo Romani e Licia Ronzulli è arrivato prima.  I governisti continuano a credere che il risultato del 30% dei delegati a livello nazionale, numero sufficiente a chiedere modifiche statutarie e fermare il passaggio a Forza Italia, sia alla loro portata. Eppure, ammette uno di loro, «le minacce di Berlusconi non ci stanno aiutando». Quel monito del Cavaliere ad Alfano e ai suoi ministri a «non fare la fine di Gianfranco Fini, voltando le spalle agli elettori» li ha messi in difficoltà. Vanno bene in Calabria (dove c'è Giuseppe Scopelliti) e in Sicilia (dove sono nati il vicepremier e Renato Schifani), galleggiano altrove, ma sono crollati in regioni popolose come il Veneto o il Piemonte e non soltanto dove era previsto come in Campania e in Puglia. A coadiuvare il nucleo dei «lealisti», poi, si sono messi anche i «mediatori» come Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, che possono contare su pezzi rimasti dell'apparato che fu di An. Non c'è partita. Tanto che molti di loro, per primo Carlo Giovanardi, stanno cominciando seriamente a valutare l'ipotesi di mettere in atto la scissione prima, di non presentarsi nemmeno al Consiglio nazionale. «Sarebbe molto meglio sancire la divisione», ammette l'ex sottosegretario.  La sua posizione è condivisa dall'ex capogruppo Fabrizio Cicchitto, rimbrottato da Stefania Prestigiacomo: «Sei attaccato alla poltrona». Oggi il vicepremier e la sua squadra renderanno pubblico un nuovo documento con il quale chiederanno al Cavaliere di continuare a sostenere Letta: «Non ti seguiamo sulla via della crisi». Sotto ci sono 50 firme, dicono. I «lealisti» sostengono però di averne 82 su 128. «Non si è ancora deciso nulla», assicurano. Ma è sempre più probabile una accelerazione e che alla fine Alfano e i suoi decidano di dare forfait o convochino un'altra riunione in un'altro luogo. La speranza è al lumicino: Jole Santelli, sottosegretario e alfaniana, ieri ventilava l'ipotesi della crisi: «Da parte nostra c'è la volontà di andare avanti, ma occorre lealtà. Se il Pd pretende di calpestare la Costituzione è inevitabile l'alterazione del dialogo politico», avverte. Paolo Emilio Russo

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