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l'editoriale

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Maurizio Belpietro

Albina Perri
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Non è servita a nulla la visita di Pier Luigi Bersani. E neppure quella di  Massimo D'Alema, Piero Fassino, Deborah Serracchiani e tutti gli altri dirigenti che a Mantova sono giunti in forze per la Grande battaglia. Dopo quattro Regioni e una quantità di piccoli Comuni, è caduta anche la città dei Gonzaga, la capitale della sinistra al lambrusco, l'enclave rossa in terra lombarda, una roccaforte che resisteva da sessant'anni. A farla capitolare è bastato un semisconosciuto architetto, ex democristiano e forzista della prima ora, sul quale neppure i vertici del partito avrebbero scommesso un euro, tanto è vero che da piazza Sordello si sono tenuti tutti alla larga, tranne Formigoni che lì si è dovuto spingere a caccia di voti per essere riconfermato alla guida del Pirellone. Nessuno probabilmente aveva capito che il sistema tenuto in piedi dal '48 ad oggi era giunto alla fine, sbriciolato come la celebre torta Sbrisolona di cui in quelle zone vanno orgogliosi. Il candidato del centrodestra si scontrava con una comunista doc, una funzionaria di lungo corso, la quale dentro il partito ha percorso tutta la carriera e che si ripresentava dopo un mandato di cinque anni. Per Fiorenza Brioni doveva essere una passeggiata: a Mantova i cattocomunisti da soli erano soliti arrivare al 50 %, senza neanche il sostegno di Bertinotti. Questa volta per la sindaca uscente si erano messi tutti insieme appassionatamente: ex pci, ex dc, attuali dc come i seguaci di Casini, dipietristi  e perfino i rifondaroli. Risultato: una batosta. Per la quale in verità non è stata determinante,  come al contrario nel resto della Regione,  la Lega, che a Mantova è cresciuta, ma fermandosi al dieci per cento. Perché la faccio tanto lunga col risultato elettorale di una cittadina che ha meno di cinquantamila abitanti e a livello demografico conta meno di Vibo Valentia ed è grande quanto Macerata, altre due città che sono andate al voto? Perché la brutta botta di Mantova rappresenta meglio di qualsiasi editoriale cosa sta succedendo alla sinistra italiana e al Pd: sono arrivati al capolinea. È la fine di un sistema che si reggeva sul partito e sulle sue attività collaterali, dalle cooperative emiliane alle salamelle. Qui il problema non sono più Bersani, Franceschini, Veltroni o D'Alema e una generazione di dirigenti cresciuti nel Pci e nella Dc. Qui è la sinistra nel suo complesso che è collassata e sta chiudendo bottega ovunque, anche nelle sue casematte. È il popolo progressista che non c'è più, anzi è andato al mare invece di andare a votare: a Mantova, dove in nome del partito recarsi al seggio era un obbligo come andare in chiesa la domenica mattina, in questo weekend  meno del 60% ha deposto la propria scheda nell'urna. Le avvisaglie del fenomeno di evaporazione di un elettorato rosso che pareva impossibile da prosciugare si erano già viste alle precedenti elezioni Politiche e ancor più segnatamente alle Regionali. In Emilia, Toscana e financo nelle Marche la schiacciante supremazia comunista si era fatta più contenuta. A Piacenza, Sassuolo, Prato e altre amministrazioni la Lega e il PdL erano avanzati o addirittura avevano conquistato il Comune. La lenta erosione è proceduta in queste settimane fino ad arrivare dove mai una giunta di destra si era spinta. Di questo passo, appare evidente che se il Popolo della Libertà non disperderà il consenso ottenuto, altre roccaforti potranno cadere, prima fra tutte Bologna, in cui si voterà nei prossimi mesi, poi Napoli, Torino e forse altro ancora. Se il clima resta questo uno solo potrebbe riuscire nella difficile impresa di sconfiggere il centrodestra:  lo stesso centrodestra. Con le sue liti e le sue poco simpatiche guerre tra banderuole è sulla buona strada. Se insiste riuscirà a perdere  l'occasione storica di chiudere i conti con il passato della sinistra italiana.

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