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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Monica Rizzello
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Giuliano Ferrara vorrebbe che Berlusconi tendesse la mano a Fini, chiudendo con una bella intesa la lite di questi giorni. Secondo il direttore de il Foglio, il presidente della Camera non è un nemico del Cavaliere, ma solo un leader che vuole continuare a crescere sulla propria strada e dunque non ha senso «umiliarlo o marginalizzarlo platealmente».  Per l'augusto collega il presidente del Consiglio avrebbe bisogno di «triangolazioni e capacità politiche trasversali» e non di tifosi che lo acclamano, dunque il cofondatore sarebbe tutt'altro che d'intralcio, anzi potrebbe alla fine tornare utile. Ferrara, che qualcuno accredita come novello consigliere di Fini, fa un ragionamento politico sofisticato e certo sarebbe bello potergli dar ragione, ma la realtà è molto meno ricercata di come viene presentata e basta ascoltare le richieste che provengono da coloro i quali rappresentano le istanze del presidente della Camera per rendersene conto. Fini non pone solo una questione di politica e di cultura, ma più banalmente di posti e di potere. Nei due anni passati sullo scranno di Montecitorio s'è sentito messo da parte e poco consultato e allora vorrebbe a questo punto porre rimedio alla trascuratezza passata, insediando uomini fidati al vertice del PdL e in uno dei due rami del Parlamento, preferibilmente quello con  sede a Palazzo Madama, che alla Camera già pensa lui direttamente. In più vorrebbe che venisse certificata la nascita della sua corrente, la quale diverrebbe un interlocutore interno al partito, da consultare ogni qual volta si debba prendere una decisione e al quale concedere ovviamente rappresentanza, che in politica significa ovviamente una sola cosa: poltrone. Più che una nuova destra è una vecchia storia. Messa così è tutt'altro che una questione di cultura e se Berlusconi accondiscendesse alle richieste sarebbe un atto di autolesionismo, al pari di chi si ficca da sé una spina nel fianco, la quale ogni volta gli ricorderà che il cofondatore esiste e quasi mai lotta insieme a lui, a meno di non contentarlo con qualcosa in cambio. Il problema è politico sì, ma soprattutto di potere.  Quando due rematori vogliono andare in direzioni diverse, non ci sono molte soluzioni. Segare la barca non si può, perché affonderebbe, dunque non rimangono che due possibilità: o uno  scende dal natante oppure lascia fare all'altro adeguatamente ricambiato. È  ciò che si offre in cambio su cui deve riflettere il presidente del Consiglio. Se cede oggi alle richieste di Fini è inevitabile che questo appena potrà chiederà altro, avendo per giunta conquistato una posizione di maggior rilievo e disponendo di altri rappresentanti. Tutti quanti avremmo voluto che fondatore e cofondatore andassero d'amore e d'accordo, ma al punto in cui si è giunti si capisce che il matrimonio non ha funzionato e ora non resta che accettare i fatti per come si sono sviluppati. A Berlusconi conviene andare fino in fondo e chiarire nel momento in cui ha i numeri per farlo il rapporto con Fini. Se questi resta alle condizioni di ridimensionare le proprie pretese bene, diversamente meglio affrettarne l'uscita senza alcuna concessione. Del resto il Cavaliere dovrebbe ricordare che cosa hanno rappresentato le correnti nella storia dei partiti della prima Repubblica. Quelle della Dc hanno sempre fatto e disfatto i governi e in più di un caso i dispetti fra diverse fazioni hanno azzoppato i candidati per la presidenza della Repubblica,  arrivando al punto di favorire quelli di altri gruppi. Se il presidente del Consiglio non vuole fare la stessa fine di Andreotti e Fanfani, che volevano il Colle ma non lo ottennero mai grazie agli sgambetti degli amici di partito, dunque sa come agire.

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