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L'editoriale

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di Mario Giordano

Tatiana Necchi
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«Passerò la mia estate a organizzare la campagna elettorale», avrebbe detto così Berlusconi alla cena dei senatori. E  comincio a credere che le elezioni a novembre, in fondo, non sarebbero poi neanche così male. Pensateci bene: sicuramente meglio di un governo tecnico, sicuramente meglio di un governo di transizione, ma forse meglio anche di un triennio di trincea istituzionale, con la terza carica dello Stato appollaiata sulla cima di Montecitorio a fare da cecchino a ogni cambiamento reale e i suoi pasdaran a fare i taglieggiatori a ogni svincolo legislativo. Quello che è successo ieri  è significativo: la mozione di sfiducia nei confronti del sottosegretario Caliendo  è stata messa in calendario per mercoledì,  si va a votare contro un membro del governo a procedimento giudiziario ancora in corso, e il gruppo di Fini che dice? «Consulteremo l'Udc», cioè una forza di opposizione. Ma si possono passare tre anni ad aspettare che Bocchino e Briguglio si consultino con Cesa? Si può invischiare uno dei governi che più ha fatto per il Paese nelle trame di simili persone? Si capisce: il ricorso al voto non sarebbe l'epilogo che gli elettori del centrodestra sognavano, non è quello che avevano scelto con il voto di due anni fa. Ma a volte la strada della politica, anziché per linea retta, procede per scarti. E magari anche per scartine. Gianfranco Fini, per esempio: chi lo poteva immaginare che sarebbe diventato l'alter ego di Di Pietro? Chi poteva immaginare che l'ambizione l'avrebbe roso fino al punto da trasformarlo in un masochistico demolitore? Così è andata e adesso bisogna trovare la strada per uscirne. E al momento non esistono che due possibilità: o Fini lascia la presidenza della Camera e i suoi ritornano a miti consigli, oppure bisogna andare alle urne. Tertium non datur, né tecnico né di transizione. E tanto meno di sopravvivenza. Un governo Berlusconi non può essere di sopravvivenza. Gli italiani lo hanno votato per avere quelle riforme radicali di cui il Paese ha bisogno. Notava giustamente ieri sulla “Stampa” un osservatore attento (e non certamente berlusconiano) come Luca Ricolfi che, a ben vedere, sia il disegno di legge sulle intercettazioni sia quello sul federalismo sono usciti alla fine assai più moderati, meno berlusconiani e più finiani, rispetto a quello che stava scritto nel programma elettorale del 2008. E se Fini ha boicottato fino a ieri le riforme (che pure aveva sottoscritto in campagna elettorale) come pensare che non lo farà ancor di più domani? E come si può pensare, tanto per dire, di fare la riforma della giustizia, con la presidenza della Camera che si mette di traverso e Bocchino (pensate un po') che fa il paladino della legalità travagliesca? Il rischio di una lunga palude c'è e fa più paura del rischio di elezioni. Che, a questo punto, non saranno il meglio, ma forse sono il meno peggio. Certo, si capisce, il Paese è stanco dell'eterna campagna elettorale, i sostenitori del centrodestra pensavano di avere garantito con una solida maggioranza cinque anni di stabilità, e soltanto a marzo, dopo le regionali, eravamo tutti qui in coro a magnificare la possibilità di trascorrere tre anni dedicati alla riforme, senza più tensioni pre-voto e veleni annessi&connessi. Tutto giusto, tutto vero. Sarebbe meglio evitare, sarebbe stato meglio evitare. Ma se l'alternativa è il vietnam politico, che si deve fare? È come quando uno ha la diarrea: certo, mettersi la supposta non  è piacevole. Brucia un po'. Ma a volte è l'unico modo per evitare di morire disidratati... Bossi l'ha già detto: nessuno governo tecnico, l'unica alternativa a Berlusconi è andare al voto. C'è da augurarsi che sia di parola e che il patto di ferro con il Cavaliere sia più forte di ogni diavoletto tentatore, interno e esterno alla Lega. Per il resto, si sa: in campagna elettorale Berlusconi dà sempre il meglio di sé, riuscendo a riannodare quei fili con la pancia della gente che a tutti gli altri sfuggono. I sondaggi lo danno ancora stravincente (sarebbe così dopo tre anni di tiramolla con i finiani?); sicuramente potrebbe vantare ottimi risultati di governo (il modo in cui l'economia ha retto alla crisi, gli straordinari successi nella lotta alla criminalità organizzata, la riforma dell'Università, il ruolo di primo piano giocato dall'Italia sulla scena internazionale, etc); coglierebbe la sinistra in mezzo al guado, fra Bersani e Vendola, con Veltroni che spara a zero e D'Alema che tesse trame sempre fallimentari; e sorprenderebbe il grande centro casinian-rutellian-montezemoliano sul nascere, ancora troppo acerbo per raccogliere consensi superiori al prefisso telefonico. Anche Fini non otterrebbe che una modica quantità di preferenze: il presidente della Camera s'è portato dietro l'eredità economica di An, non quella dei voti. E siccome gli appartamenti a Montecarlo non si recano all'urna, finirebbe come Bertinotti: un cachemire da pensione, buono per i talk show. Non sarebbe già questo un motivo per andare volentieri al seggio? Qualcuno dice che le elezioni sono una “iattura”. Diciamo che, potendo scegliere, avremmo preferito tre anni di riforme a tre mesi di campagna elettorale. Ma non potendo scegliere, che ci resta? Per quanto indesiderate e indesiderabili, le elezioni sono sempre meno “iattura”  di un governo in stallo, che non riesce a fare le riforme decise dagli elettori, o di un governo tecnico, che non fa le riforme decise dagli elettori ma quelle decise nei salotti. E magari abolisce per sempre il bipolarismo. Non credete? Più ci penso e più mi convinco che non bisogna avere paura del ricorso alle urne. In fondo anche di quest'ultimo si può dire quello che Churchill diceva della democrazia: è il peggior sistema possibile, ma al momento non ne abbiamo trovato uno migliore.

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