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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
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Pochi preamboli. Anzi, nessun preambolo. Chiedo subito a Vittorio Feltri perché è tornato a Libero.  Nostalgia?  «Sì, nostalgia, ma non solo. Anche la voglia di ricominciare da capo con un ruolo diverso, sicuramente più complicato e difficile, quello dell'editore in tandem con te». Rimane da capire perché nell'agosto dello scorso anno, all'improvviso, quando nessuno se lo aspettava, decidesti di abbandonare la creatura che avevi dato alla luce. «Me lo sono domandato spesso e ogni volta mi sono inventato una risposta diversa: stanchezza, un po' di noia dovuta alla ripetitività, desiderio di fuga.  Tutti pretesti, in fondo.  Ma ora ho capito di aver fatto la cosa giusta.  Se non avessi provato il dolore del distacco, adesso non sarei felice di essere qui con voi, con te in particolare, perché saresti probabilmente ancora a Panorama e non avremmo più pedalato insieme, tra l'altro con una doppia responsabilità: quella del prodotto giornalistico e quella di editori.  Insomma, da una sbandata è nata una grande opportunità che comporta qualche rischio, e tu lo sai». Due teste e quattro occhi sono un vantaggio... «Intanto noi siamo stati per anni una coppia di professionisti affiatati.  Qualcuno si interroga su chi di fatto sarà il numero uno e chi il numero due?  Un falso problema.  Non siamo numeri, ma persone.  Agiremo come abbiamo fatto in passato quando sgobbavamo come matti e non avevamo tempo per imporci l'uno sull'altro.  Ci preme garantire al lettore la continuità, e favorire un costante aggiornamento di Libero per tenerlo agganciato alla realtà che muta velocemente.  Oggi è tutto più veloce rispetto a qualche anno fa, e a  noi è richiesto di sveltire il passo». Parli davvero come un editore, ma non dimenticare che sei un giornalista. «Non c'è pericolo.  Però al momento sono sospeso. Mi riferisco alla sanzione che mi ha inflitto l'Ordine, tre mesi di limbo durante i quali mi è vietato scrivere.  Peccato non poterti aiutare in campo giornalistico.  Mi è solo permesso di dedicarmi ai progetti, tipico lavoro di chi sta dietro le quinte di un'azienda editoriale.  Tre mesi sono tanti.  Ma venti giorni sono già passati.  Me ne restano settanta da scontare.  Trascorreranno.  Poi riprenderò con gli articoli, mi manca il rapporto diretto che avevo coi lettori.  Sono spaesato, mi sento come un mutilato.  Quarantacinque anni di questo mestiere senza mai un'interruzione, una vita a picchiettare sulla Olivetti;  non mi attendevo una punizione così violenta: la condanna alla momentanea disoccupazione.  Comunque c'è poco da protestare, occorre abbassare il capo.  Tra l'altro, ho una preoccupazione: se aumentassero le vendite mentre sono in castigo mi verrebbe il sospetto di non contare un tubo; se per caso diminuissero, sarei assalito da un senso di colpa.  Non mi va bene niente, neanche vedere te impegnato dalla mattina alla sera e non poterti dire: mi precipito in tuo soccorso». Che messaggio hai per i nostri lettori? «Sono molto più importanti loro per me che io per loro: è l'unica certezza che ho.  Per cui li ringrazio e basta.  Li ringrazio per l'affetto che hanno dimostrato per Libero e per le manifestazioni di simpatia e di solidarietà che hanno avuto per me». Quali sensazioni hai provato rientrando in redazione da padrone? «Confesso.  La multiproprietà mi dà una forte eccitazione per un motivo: tu ed io, due giornalisti che finalmente possono dichiarare di non avere né collare né guinzaglio e hanno titolo per rivolgersi al pubblico con la consapevolezza di essere liberi, privi di qualsiasi condizionamento anche psicologico e non solo economico.  La gente se ne accorgerà e spero ci premierà.  Ogni cosa che scriveremo sarà frutto esclusivamente nostro, nessuno sarà autorizzato ad ipotizzare che dietro di noi ci sia un suggeritore occulto.  Esemplifico.  Se diremo bene di Berlusconi sarà perché ne siamo convinti, se diremo male, idem.  Che bello non essere legati ad alcuno.  Le premesse sono ottime.  A noi non buttare a mare questa occasione unica.  Di un eventuale fallimento la colpa sarebbe soltanto nostra.  Un po' tremo, ma mica tanto.  E tu?» Sincerità per sincerità, più che tremori avverto il desiderio di cimentarmi.  «Tu sei freddo.  Io sono un finto freddo.  Dissimulo le mie paure e alla fine mi do coraggio».  La congiuntura politica è difficile e in parte indecifrabile.  «Effettivamente è un casino.  Berlusconi sembrava logorato, poi ha avuto la fiducia in Parlamento e ora sta cercando di consolidare la maggioranza.  Come sempre, quando pare sul punto di crollare, recupera l'energia per rimettersi in sella.  Il quesito è lo stesso da anni: durerà?  Già negli anni Novanta dicevano che era finito, ed è qui ancora dritto come un fuso.  Mentre i suoi avversari si affannano per demolirlo e scordano di proporre idee migliori delle sue;  sicché perdono sistematicamente.  Il Partito Democratico è spaccato, forse ci sarà una scissione.  Se si andasse alle urne il centrodestra, nonostante le zuffe degli ultimi mesi, vincerebbe di nuovo». Al Cavaliere conviene premere affinché le Camere non si sciolgano? «In questo frangente lui traccheggia.  Si capisce che ormai è tranquillo.  Ovvio.  Ha scongiurato il governo tecnico.  Se riesce a rimorchiare Casini, va avanti almeno un anno senza scossoni». A proposito di Casini: è affidabile? «È un politico di lungo corso, un democristiano classico, incline alle trattative, scaltro, opportunista, gioca di rimessa e qualche goal lo fa.  Vado giù piatto: mi è simpatico sul piano umano, ma su quello politico mi dà sui nervi.  Se Berlusconi lo carica sul carro del centrodestra è evidente che lo fa per disperazione, come per disperazione caricò Fini, salvo pentirsene subito dopo». Alternative? «Elezioni anticipate.  Gli italiani non hanno voglia di votare ogni due per tre.  E non comprendono le ragioni per cui la maggioranza si sia sfaldata.  O meglio: non perdonano a Fini di aver sfasciato tutto e al Cavaliere di non averglielo impedito.  La litigiosità nel Palazzo infastidisce i cittadini.  I quali, in ogni caso, magari turandosi il naso, preferiscono Berlusconi non perché ne siano innamorati, ma perché i suoi rivali sono impresentabili, spesso ridicoli, quasi sempre con i piedi saldamente ancorati sulle nuvole.  Il segreto del successo del premier è tutto qui:  uno va in cabina, guarda la scheda, scuote la testa, fa una smorfia, ma si rassegna e traccia la croce sul simbolo del PdL.  O su quello della Lega, se si illude di dare al proprio voto il significato di una protesta».

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