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L'editoriale

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di Vittorio Feltri

Giulio Bucchi
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Di quello che adesso succede in Libia si sa poco o niente, e dubito che agli italiani interessi saperne di più. A noi sta a cuore il prezzo del petrolio, che sale minacciando l'economia già abbastanza fragile. Questa è l'unica certezza, l'unica preoccupazione. Il resto sono cascami di notizie che ci giungono attraverso i telegiornali e i soli talk show in cui si comincia col parlare di Gheddafi e si finisce immancabilmente col discutere di Silvio Berlusconi, colpevole di avere intessuto con il raìs rapporti troppo amichevoli e documentati da una storica fotografia in cui il Cavaliere (scherzosamente) gli bacia la mano. Se c'è da polemizzare sul premier è buono tutto. Nessuno che ricordi, anche solo per dovere di cronaca, che col dittatore beduino i nostri governi hanno sempre flirtato ricevendo in cambio solenni fregature. Poiché il presidente del Consiglio in carica si chiama Berlusconi, conviene addossare a lui ogni responsabilità, compresa quella di non aver previsto a tempo debito che la situazione libica era sul punto di precipitare. La domanda delle cento pistole in effetti è questa: perché Palazzo Chigi non si è avvalso dei servizi segreti, che ci costano un occhio, per avere informazioni sull'imminente crisi in Tripolitania e in Cirenaica? E giù accuse di sciatteria all'esecutivo, in particolare al Satana di Arcore, cui si rimprovera di aver prestato più attenzione ai glutei di Ruby che non alle soffiate degli 007. Ancora una volta fingiamo di ignorare la realtà. Ci fa comodo pensare che gli apparati di sicurezza non abbiano funzionato oppure - meglio ancora - abbiano funzionato ma che il premier donnaiolo non li abbia ascoltati, intento com'era ad attività ludiche (quelle da camera). Ecco fatto. Silvio sarebbe talmente stupido d'aver sbaciucchiato Gheddafi senza badare che si legava - pagando fior di quattrini - a un cammelliere in procinto di essere impiccato dal suo popolo. Le cose non stanno così; sono molto più banali. La verità è che gli agenti segreti in Italia non sono considerati una risorsa decisiva, bensì un problema da risolversi trattandoli come fossero criminali, gente da guardare con sospetto, capace di arricchirsi fornendo al miglior offerente servizi di bassa bottega, illegali, mediante i quali  incastrare avversari o ingraziarsi potenze straniere. Non ci entra in testa l'idea che gli agenti lavorino nell'ombra allo scopo di proteggere il Paese; siamo invece convinti siano dei mascalzoni inclini a fabbricare fango (su commissione) da aspergere sul capo del “nemico” politico di turno. Mezzo secolo di storia patria è lì a dimostrare un paradosso: noi remuneriamo gli spioni non perché ci aiutino - come accade in tutto il mondo - a prevenire attacchi e disastri d'ogni tipo, ma perché siano pronti, in caso di pasticci, a confessare di esserne gli autori, subire processi infamanti e riprovazione pubblica. Dalla strage di piazza Fontana in poi (sorvoliamo sullo scandalo Sifar), qualsiasi delitto, specialmente gli eccidi, è stato attribuito agli 007 deviati e al soldo di fantomatici poteri occulti, peraltro mai scoperti. In parole povere e assai volgari, gli uomini della sicurezza italiana, anziché venerati e coccolati, vengono sputtanati da chi dovrebbe portarli in palmo di mano e incoraggiarli a non demordere. Anche recentemente, in presenza del pericolo terrorismo, abbiamo assistito a una pagliacciata assurda. Mi riferisco alla vicenda di Abu Omar. I nostri agenti agirono di concerto con i colleghi statunitensi e finirono nelle grane. Grane giudiziarie serie. Non bastò il segreto di Stato a garantirli dalla giustizia ordinaria. Il capo dell'intelligence, con i suoi collaboratori, fu trascinato in tribunale. Rischiò la galera. Dati questi precedenti, va da sé che gli addetti alla sicurezza, che per definizione fanno mestieri sporchi, evitino con cura di fare anche quelli puliti. Se ne astengono per paura di essere stritolati. È noto inoltre che l'organizzazione segreta nazionale avrebbe l'obbligo di muoversi in sintonia con équipe analoghe di altri Paesi. Ovvio. Viviamo in piena globalizzazione e non dovrebbe essere diversamente. Viceversa, i nostri agenti ormai vengono emarginati sul piano internazionale, tenuti in disparte, non perché inetti, ma perché collaborare con gli italiani significa rischiare il coinvolgimento in inchieste dall'esito drammatico: condanne pesanti. Risultato. Pur di non esporsi, gli 007 sotto la bandiera tricolore si limitano all'ordinaria amministrazione. Puntano allo stipendio e tirano a campare. Figuriamoci se si immischiano negli affari libici e in qualsiasi affare scottante. Perché allora non smantelliamo la struttura, constatato che è superflua nonché costosa? Forse confidiamo in un cambiamento di mentalità e di costume politico. Campa cavallo.

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